Quattro donne e il giardino nebbioso
Prodotto di quel cinema iraniano fertilissimo seppur tra mille difficoltà politiche e censorie, Donne senza uomini dell'esordiente Shirin Neshat, premiato a Venezia, è film in cui poche luci si alternano a molte ombre, sebbene traspiri dal lavoro un anelito di denuncia sociale e antropologica che avrebbe potuto portare a ben altri risultati se non fosse stata troppo spesso soverchiata da una ovvietà stilistica che stupisce ancora di più nel caso di una opera prima.
Non che il film non possieda momenti belli e poetici , immagini ben colorate (stile Kiarostami) , gridi di denuncia sul potere politico , con chiaro rimando ai giorni nostri seppure traslati 60 anni dietro nel tempo, solo che la regista sembra volere troppo spesso affiancare la denuncia di costumi e usi locali con considerazioni globali sul rapporto uomo-donna e soprattutto nel finale sceglie una atmosfera surrealista, metaforica che a momenti sembra più una parodia dello stile bunueliano che un piano narrativo strutturato.
Non che il film non possieda momenti belli e poetici , immagini ben colorate (stile Kiarostami) , gridi di denuncia sul potere politico , con chiaro rimando ai giorni nostri seppure traslati 60 anni dietro nel tempo, solo che la regista sembra volere troppo spesso affiancare la denuncia di costumi e usi locali con considerazioni globali sul rapporto uomo-donna e soprattutto nel finale sceglie una atmosfera surrealista, metaforica che a momenti sembra più una parodia dello stile bunueliano che un piano narrativo strutturato.
Il racconto si impernia intorno alla figura di quattro donne nella Teheran del 1953, anno di sussulti politici devastanti, che sembrano vivere la loro vita in maniera anonima, impersonale, schiave delle tradizioni e delle situazioni della vita; le donne interessano trasversalmente la società iraniana appartenendo a classi sociali diverse, accumunate però tutte da una desolazione derivata da una vita quasi "morta".
In modo magico e onirico tre delle quattro si ritrovano in una tenuta immersa nei boschi dove sembrano essere fuggite per lasciarsi alle spalle i dolori, unite in un limbo che le aiuti a guarire le ferite inferte loro dalla protervia maschile, la quarta si voterà alla ribellione politica trovando in essa l'impulso vitale per fuggire alla sopraffazione.
In modo magico e onirico tre delle quattro si ritrovano in una tenuta immersa nei boschi dove sembrano essere fuggite per lasciarsi alle spalle i dolori, unite in un limbo che le aiuti a guarire le ferite inferte loro dalla protervia maschile, la quarta si voterà alla ribellione politica trovando in essa l'impulso vitale per fuggire alla sopraffazione.
Il finale, negli intenti della regista, apparentemente pessimista sembra indicare una strada senza uscita alla condizione delle donne, cui forse solo la morte può donare tregua.
Il ritratto iniziale delle quattro donne è ben fatto ed introduce bene i personaggi e le loro angoscie, ma già dalla scena iniziale, in cui si indugia troppo su nuvole che passano e su orizzonti chiusi, si capisce che l'impronta che la regista vuol dare al film si affida troppo ad una ricorrenza di immagini metaforiche e non che convince poco.
Indubbiamente alcuni momenti del film sono belli (la scena nel bagno pubblico, la donna in velo nero fra le camicie bianche dei manifestanti), ma la confusione che man mano sembra crescere nella seconda parte del film in cui a dominare è il bosco nebbioso della tenuta e che trova l'apoteosi nel finale, come già detto, purtroppo non può non influire sul giudizio: un lavoro che ha premesse valide (sociali e politiche) ma che scade ben presto in incomprensibili parafrasi surreali.
Il ritratto iniziale delle quattro donne è ben fatto ed introduce bene i personaggi e le loro angoscie, ma già dalla scena iniziale, in cui si indugia troppo su nuvole che passano e su orizzonti chiusi, si capisce che l'impronta che la regista vuol dare al film si affida troppo ad una ricorrenza di immagini metaforiche e non che convince poco.
Indubbiamente alcuni momenti del film sono belli (la scena nel bagno pubblico, la donna in velo nero fra le camicie bianche dei manifestanti), ma la confusione che man mano sembra crescere nella seconda parte del film in cui a dominare è il bosco nebbioso della tenuta e che trova l'apoteosi nel finale, come già detto, purtroppo non può non influire sul giudizio: un lavoro che ha premesse valide (sociali e politiche) ma che scade ben presto in incomprensibili parafrasi surreali.
A me invece piacque molto, l'ho trovato ricco di poesia e ben diretto; probabilmente la scena finale è un po' eccessiva nel suo surrealismo e troppo pretenziosamente carica di metafore, ma a parte questo il film è molto bello.
RispondiEliminaA me invece non ha convinto per nulla; qualcosa di buono c'è e la regista sembra avere talento, ma troppa confusione che alla fine irrita quasi.
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