Il dramma della dignità violata
Conosciuto soprattutto per la sua monumentale opera di documentarista, il regista cinese Wang Bing ha avuto il suo palcoscenico veneziano del 2010 con il film a sorpresa The ditch, uno dei lavori più belli in assoluto della passata stagione cinematografica.
E' un opera durissima, impregnata di dramma e di annichilimento, ambientata durante i primi anni sessanta della Cina maoista che vide finire nei campi di rieducazione migliaia di persone con l'accusa di essere destrorsi, spesso solo per avere espresso opinioni appena divergenti da quelle ufficiali.
In The ditch si narra la storia del campo di rieducazione di Jiabiangou e dei suoi prigionieri impegnati nella costruzione di un interminabile quanto inutile fossato e ridotti ad una vita umiliante e alienante.
Il film , quasi tutto girato in angusti cunicoli che fungono da dimora per i prigionieri nel bel mezzo del deserto del Gobi, ha incontrato le prevedibili difficoltà con le autorità cinesi e si è avvalso di una produzione franco-belga per poter essere realizzato.
E' il racconto al limite del minimalismo di un dramma umano collettivo che porta alla morte molti e all'annullamento della persona gli altri: è proprio questo senso angosciante di fine prossima, intesa come cancellazione del fisico e dello spirito, che scorre in lungo e in largo per tutto il lavoro, l'elemento su cui si poggia tutta la narrazione, ogni gesto , ogni sguardo e ogni parola testimoniano lo spegnersi senza speranza della dignità umana.
Nonostante la cupa durezza del tema, Wang Bing sceglie un tono pacato, essenziale, privo di ogni dettaglio macabro, anche là dove potrebbe starci. e con il suo stile che risente molto della personale storia di documentarista acclamato, piazza la sua macchina da presa a mano addosso ai protagonisti cercando di divincolarsi all'interno dei bui tuguri in cui il film si svolge; anche nelle rare scene all'aperto i personaggi si muovono come fantasmi , spesso di spalle, barcollanti , sferzati dal vento e dalla sabbia del deserto.
Concede pochissimo alla facile emozione e allo sdegno, proprio perchè il film vuole essere una storia piccola di uomini sopraffatti da un qualcosa di cui spesso non afferrano neppure il significato e, nonostante ciò, alcuni momenti sono di un intensità emotiva che arriva a strappare le lacrime ( l'arrivo della moglie di uno degli internati morto poco prima, la scena finale in cui uno dei prigionieri fugge); persino il finale che potrebbe sembrare lasciare filtrare uno spiraglio, è un viaggio senza speranza che lascia i tuguri sotterranei vuoti, pronti ad accogliere altri prigionieri.
Wang Bing da prova di sapienza nella regia, usando sempre il chiaroscuro e le ombre nei bui interni e mostrando un paesaggio esterno che da solo incute terrore e abbandono, creando ambienti in cui le voci sussurrano ma le nostre coscienze fremono.
Un film nel complesso splendido, pesante come un macigno, che lascia ferite lacerate in chiunque intenda il cinema anche come racconto di piccole storie che respirano e palpitano in maniera grandiosa.
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