Una storia tutta italiana
Quattro anni orsono, con La ragazza del lago, Andrea Molaioli si era imposto come uno dei più promettenti cineasti italiani, grazie ad un film sfolgorante e dai lontani richiami chabroliani; con Il gioiellino il regista romano tenta il bis affidandosi ad una storia molto italiana, come di fatto era anche la sua opera prima, che tenta di ripercorrere quel cinema di denuncia di cui la cinematografia italiana ha perso le tracce da molti decenni.
Senza mai dare riferimenti espliciti, la storia è il racconto , spalmato su più di un decennio, di una delle vicende italiane più sconcertanti, quella del crac Parmalat: personaggi e situazioni sono fittizie, ma la Leda, azienda produttrice di latte, assomiglia troppo a quella della famiglia Tanzi per poter non credere che ogni riferimento non sia affatto casuale.
Più di un decennio in cui vengono raccontate l'ascesa del gruppo, la creazione di una fittissima trama di interessi paralleli e collaterali con gli ambienti che contano, le strategie del gruppo, l'espansione verso i nuovi mercati venutesi a creare con la caduta del comunismo, le acrobazie finanziarie fino allo scandalo finale e all'arresto del management del gruppo.
Ovviamente i personaggi hanno nomi di circostanza e anche su di loro, sul modo di intendere il potere e il denaro e sulle dinamiche personali, Molaioli cerca di tessere una trama che fotografa abbastanza precisamente i protagonisti: il capo del gruppo, leader della azienda di famiglia, il figlio appassionato di calcio e proprietario di una squadra, la nipote ambiziosa manager in erba, il fido ragioniere tessitore di tutte le trame finanziarie, i vari responsabili dei settori del gruppo; tutti ben caratterizzati, soprattutto grazie alla bravura di alcuni degli attori e tutti con una storia nella storia da raccontare.
Laddove il film viene meno agli intenti di denuncia e sociali è nella mancanza di cattiveria, nell'assenza di qualche zampata lanciata con artigli che lacerano, manca insomma quello che Sorrentino, con maggior ed efficace genialità, ha messo sul piatto della bilancia nel suo Il divo, per certi versi assimilabile come genere a questo lavoro.
La denuncia dello strapotere finanziario che giunge fino al dominio delle persone e delle loro vite è raccontato con compostezza ma privo di forza , così come le vicende così tanto italiane di commistione di politica, finanza, imbrogli e furbetti del quartierino, il tutto però, pur andando nella direzione che probabilmente il regista intendeva, sembra troppo spesso privo di quel guizzo che lo faccia uscire fuori dalla cronaca.
In questo il film non regge , scricchiola notevolmente e si limita ad un racconto che poco di nuovo aggiunge, mancando clamorosamente di spirito di denuncia e di quella dose di ironia e di grottesco che avrebbe sicuramente giovato.
La sufficienza al lavoro di Molaioli l'assicura l'eccellente interprteazione di Remo Girone e di Toni Servillo, il quale ormai sembra perennemente ingabbiato in un prototipo di ruolo, che rivaleggiano in quanto a bravura nei due ruoli più importanti.
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