La difficile accettazione della diversità
Opera prima del figlio d'arte Kenneth Bi, Rice Rhapsody è stato un piccolo fenomeno cinematografico nell'anno in cui è uscito: premio come migliore opera prima agli Awards HKesi e massiccia presenza e riconoscimenti in vari festival sparsi per il mondo.
Pur non essendo certo opera che lascia un segno indelebile, il film ha indubbiamente dei grandi pregi cui fanno da contraltare però svariati difettucci sparsi qua e là.
Intanto l'argomento trattato, seppur sotto forma di commedia, è di quelli che nel cinema HKese è ancora appannaggio di pochi e molto poco convenzionali registi, quali Scud ad esempio: infatti la storia si impernia sul racconto del difficile rapporto tra una madre e tre figli maschi, di cui i due maggiori dichiaratamente gay ed il terzo, ancora poco più che adolescente, avviato sulla stessa strada.
La donna gestisce un ristorante nella Chinatown di Singapore, in cui cucina con grande passione e accuratezza un pollo al riso che è il marchio di fabbrica del locale, è vedova da sedici anni e vive in maniera travagliata il rapporto coi due figli gay, quasi fossero dei traditori dei suoi sentimenti; l'unica sua speranza è riposta in Leo, il figlio più piccolo, che però da già evidenti segni di tendenze critpo-omosessuali.
Con la complicità del proprietario di un vicino ristorante, neppure troppo segretamente innamorato di lei da anni, mette in piedi un piano per tentare di rimettere sulla giusta strada il figlio più piccolo avvalendosi di una ragazza francese che ospita in casa sua all'interno di un progetto di scambio culturale.
La ragazza, molto new age, risulterà un elemento dirompente e al contempo risolutore di molte problematiche, anche se il piano della donna andrà miseramente a rotoli.
Il tema della omosessualità è trattato con garbo e più sotto l'aspetto interiore della donna che vede nelle tendenze dei figli uno schiaffo alla sua dignità e al suo senso materno, sembra risolversi solo dopo sofferenze e rinunce e nonostante l'atmosfera decisamente da commedia, sotto sotto cova una certa durezza proprio perchè l'accettazione della realtà passa attraverso la sofferenza e la rinuncia.
La figura di Sabine, la ragazza francese, vuole essere l'elemento di rottura del film, portatrice di valori estranei alla cultura cinese, ma per buona parte risulta un personaggio che non convince anche se di fatto è una sorta di deus ex machina che si appalesa per mettere le cose al loro posto.
Altro elemento che lascia un po' d'amaro in bocca è il finale, scontato e poco convincente nella sua struttura, molto più consono ad una commedia occidentale, che mette ordine con un ottimismo alquanto forzato.
Per il resto il film è gradevolissimo, mai allusivo nè caricaturale, l'ambientazione a Singapore è molto curata e ben costruita, i personaggi sono disegnati con precisione e risultano subito simpatici, con l'eccezione di cui abbiamo già parlato di Sabine, il disagio della protagonista è raccontato con grande passione pur sfiorando a volte un certo intimismo e minimalismo, soprattutto dove va a indagare sull'accettazione della diversità e sul dolore per le mancate aspettative.
Perno memorabile del film è la grande Sylvia Chang che regala una interpretazione da manuale confermandosi una delle figure più importanti del cinema di Hong Kong; bravo anche Martin Yan nel ruolo del ristoratore spasimante.
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