Nell'inquietante e deludente Palmares della Mostra del Cinema di Venezia, il Leone d'Oro a Roy Andersson per il suo piccione che osserva riflettendo l'esistenza umana è probabilmente l'unico lavoro meritevole di un riconoscimento: più consono sarebbe stato il Premio alla Regia, perchè il lavoro del regista svedese gioca proprio nell'aspetto più squisitamente tecnico le sue carte migliori grazie ad una regia originale e personalissima.
La trentina di quadri che Andersson presenta con il suo inconfondibile stile sono una lunga osservazione distaccata sugli aspetti più vari dei comportamenti umani, cercare una trama seppur esile è ardua impresa, ove si eccettuino le figure dei due venditori che in qualche modo tengono insieme flebilmente i frammenti cinematografici raccontati dal regista.
L'osservazione di Andersson spazia dalla stralunata meditazione sulla morte che apre il film con tre piccoli siparietti gustosi, prosegue con immagini che sembrano più quadri animati da tenui movimenti in cui trovano spazio, tra l'altro, una focosa e molesta insegnante di flamengo, una taverna dove si rimembrano i tempi andati della guerra, Carlo XII che va alla guerra contro l'Impero Russo transitando prima per un bar di Goteborg, una criptica scena di fidanzati al tramonto sulla spiaggia, i due venditori di grotteschi e antiquati articoli per far ridere, e le loro peripezia, un sottofinale ancora più surreale con tematica razzista ed un finale che vira al drammatico.
Il film per tutto ciò ha il suo indubbio fascino: inquadrature fisse, colori tenui quasi seppiati, recitazione priva di qualsiasi enfasi, un fluire della storia frammentato e sincopato nel quale si ritrovano vizi, ossessioni, paure e tutto ciò che l'animo umano può produrre.
Senza dubbio la prospettiva usata da Andersson affascina, il suo racconto è talmente scarno, e così le immagini, da far pensare ad ologrammi, le riflessioni che induce non sempre sono perfettamente individuabili, ma questo è lo stile del regista, lo sappiamo; anche l'ironia e spesso il sarcasmo con cui racconta la sua riflessione, contrappuntata dall'ossessivo ripetersi della frase " Sono contento che state tutti bene" infilata quasi in ogni dialogo, regalano momenti che strappano il sorriso, seppur sommesso e dimostrano l'affannosa ricerca di un benessere e di una felicità, spesso falsamente strombazzata nei paesi scandinavi come emblema nazionale, che al piccione seduto sul ramo strappano probabilmente ghigni sardonici.
Nel complesso però il film , a fronte della bravura del regista a limitarlo all'interno di un tempo di proiezione che riesce ad evitare l'insorgere della noia, non riesce a combinare in modo armonico la buona regia originale con le tematiche: tutto appare fin troppo frammentato e fin troppo osticamente criptico in alcuni frangenti.
Non era certo il miglior film visto al Lido, però il suo Premio non fa gridare allo scandalo, proprio perchè comunque risulta essere uno dei pochi lavori che ha cercato coraggiosamente altre strade, uscendo da quel conformismo cinematografico che ha contraddistinto la rassegna.
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