Combattere la guerra da casa, avendo l'illusione di trovarsi sui campi di battaglia tra missili e nemici nascosti: la tecnologia ormai ha modificato in maniera totale anche quella che è da sempre l'attività più antica sulla faccia della terra; passare dai jet carichi di bombe e missili in perenne missione al joystick di una consolle davanti a monitor e pulsanti, questo è il destino del Maggiore Tommy Egan dell'aviazione americana.
In un container nel deserto del Nevada , a due passi da Las Vegas, seduto comodamente su una poltrona, manovra i droni che comunicano le coordinate ai missili per colpire gli obiettivi in Afghanistan, Pakistan, Yemen e nei vari teatri di guerra dove è impegnata la superpotenza americana.
Per Egan questo è frustante, poco importa che finito il lavoro se ne può tornare dalla bella moglie e dal figlio e starsene comodamente nel giardino della bella abitazione con gli amici intorno al barbecue; gli manca la guerra vera, l'esaltazione di guidare un caccia, la lontananza da casa.
Quando poi le sue azioni col joystick verranno dettate direttamente dalla CIA che, fedele alla politica e alla filosofia della guerra tipicamente americana, se ne frega dei civili e dei danni collaterali, l'equilibrio già instabile del Maggiore salta in aria.
Se il presupposto da cui parte Good Kill è indubbiamente interessante, andando a scrutare le nuove frontiere della guerra, lo sviluppo della storia cancella tutto ciò che di valido c'era nell'idea iniziale: man mano che il racconto procede si assiste alla immancabile e stucchevole sequela di clichè e luoghi comuni: colonnelli che predicano sempre le stesse cose in quel modo tra il grottesco ed il patetico, nervi che saltano e che si cerca di placare attaccandosi alla bottiglia, cazzotti contro i vetri, liti in famiglia, fughe , impulso a gettarsi tra le prime braccia che si protendono e, ovviamente, finale riappacificatore che con un sol colpo cancella tutto.
A tutto ciò , come detto, si affianca l'ideologia molto americana della guerra che , al di là della sua legitimità, è sempre la stessa in queste storie, una prospettiva che ormai conosciamo fin troppo bene e che soprattutto i conflitti degli ultimi decenni, quelli su scala limitata, hanno ben consolidato anche nel cinema creando una sorta di sotto-genere che ben poco di valido ha regalato fino ad ora.
Se poi ci aggiungiamo anche la maschera di Ethan Hawke, sempre la stessa , tirata e ingrugnata per tutta la durata del film, il cerchio si chiude alla perfezione.
Rimane solo da capire a quale titolo un film del genere abbia diritto di proiezione in una rassegna così prestigiosa come quella di Vnezia che dovrebbe saper presentare lavori di ben altro spessore.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.