lunedì 24 marzo 2025

Shadow of Fire [aka Hokage - Ombra di fuoco] ( Tsukamoto Shinya , 2023 )

 




Shadow of Fire (2023) on IMDb
Giudizio: 8.5/10

Che sia giunto finalmente il momento che anche nei cinema italiani si renda il giusto omaggio a Shinya Tsukamoto, ufficialmente per il suo 65° compleanno, più verosimilmente per non finire col rimanere ad essere tra i pochi paesi che non abbiano reso omaggio ad uno dei più grandi cineasti giapponesi del cinema moderno ?
Preceduta dalla proiezione del suo ultimo lavoro Shadow of Fire nei cinema dalla metà di marzo, seppure con colpevole ritardo di due anni, ma meglio tardi che mai… da aprile sarà possibile vedere sul grande schermo una rassegna con alcuni dei suoi più importanti lavori fin dall’inizio della sua carriera.
Il regista giapponese  oltre ad essere rimasto tra i pochissimi veri artigiani del cinema , intesi come amanti dell’arte cinematografica in ogni suo aspetto, con gli ultimi tre lavori, sotto forme diverse e con storie non sempre sovrapponibili, ha intrapreso una lunga riflessione sulla guerra e sugli effetti che essa produce sull’essere umano, intesi non solo come danni fisici, ma anche e soprattutto danni alla psiche proprio per chi è riuscito a sopravvivere alla morte in guerra.
Shinya Tsukamoto continua la sua esplorazione del trauma e della violenza con Shadow of Fire, un'opera che si inserisce nel filone del cinema bellico ma lo affronta da una prospettiva intima e post-bellica. Il film, ambientato nel Giappone devastato della Seconda Guerra Mondiale, segue alcune figure inquiete che cercano di sopravvivere tra le macerie fisiche e psicologiche del conflitto.
La storia si sviluppa attorno a quattro personaggi principali: una giovane donna, proprietaria di un locale ridotto ormai a bettola in mezzo alle macerie che si prostituisce per poter sopravvivere, un bambino orfano che si aggira tra le rovine cercando di sbarcare il lunario e che stringe un legame affettuoso con la donna  e un ex soldato di passaggio che tenta di ricostruire un'esistenza in un mondo sconvolto; per un attimo i tre sembrano quasi convergere in una nuova famiglia surrogata , ma presto le devastazioni interiori della guerra sin presenteranno a chiedere il conto; ed infine un altro soldato che si accompagna col ragazzino , nel frattempo allontanatosi dalla donna , che va alla ricerca di una illusoria e vendetta di redenzione. 
Il film non si limita a raccontare le loro vite, ma si immerge nelle loro emozioni più profonde, mostrando il dolore, la paura e la speranza che li muovono, ci mostra i postumi degli orrori che emergono durante la notte che non abbandonano nessuno dei protagonisti.



La narrazione di Tsukamoto è volutamente frammentaria e immersiva. Il regista utilizza lunghi silenzi, sguardi prolungati e una messa in scena minimale per costruire un'atmosfera sospesa, in cui la violenza della guerra è sempre presente, pur restando fuori campo. Non ci sono scene di battaglia, solo qualche isolato colpo di arma da fuoco sufficiente però a stravolgere i protagonisti, ma l'eco del conflitto risuona in ogni inquadratura, persino nei sogni o nelle immagine quasi allucinate in cui  un tappeto si trasforma nella veduta di una città rasa al suolo dalla quale emerge solo qualche rovina 
Uno degli elementi centrali del film è il modo in cui Tsukamoto affronta il trauma e la memoria. Shadow of Fire non parla della guerra in sé, ma delle sue conseguenze, dell’incapacità di lasciarsi alle spalle il passato e della difficoltà di costruire un futuro. Il titolo stesso suggerisce un mondo in cui la distruzione ha lasciato un segno indelebile, un’ombra che avvolge i personaggi e li condanna a una perpetua lotta interiore.
Visivamente, il film alterna momenti di crudo realismo a sequenze quasi oniriche, in cui la luce e l’oscurità si mescolano per rappresentare il conflitto interiore dei protagonisti. La fotografia cupa e granulosa richiama l’estetica del neorealismo e dei film di guerra giapponesi del dopoguerra, ma con un tocco moderno che esalta la sensibilità autoriale di Tsukamoto.
L’uso del sonoro è un altro aspetto cruciale: rumori di passi nella polvere, il vento che soffia tra le rovine, i suoni della natura che cercano di riaffermarsi tra le macerie creano un paesaggio sonoro che avvolge lo spettatore e lo immerge in una dimensione quasi sensoriale.
A differenza di molti film di guerra che si concentrano sugli eventi bellici e sull’eroismo, Shadow of Fire si avvicina a opere come L’infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij , che esplorano la devastazione psicologica lasciata dal conflitto. Tsukamoto riprende il suo interesse per i corpi segnati dalla violenza (già evidente in Tetsuo-The Iron Man e Fires on the Plain) ma qui lo fa con una delicatezza inedita, mettendo in scena personaggi fragili e feriti, lontani dalle figure tipiche dei film di guerra.

lunedì 10 marzo 2025

Misericordia [aka L'uomo nel bosco aka Misericorde] ( Alain Guiraudie , 2024 )

 




Misericordia (2024) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

Alain Guiraudie, regista noto per la sua capacità di esplorare le tensioni del desiderio e le loro implicazioni politiche e sociali e con il quale non è sempre facile riuscire a rapportarsi se non proprio a sintetizzarsi, torna con Misericordia (L'uomo nel bosco), un'opera che si colloca perfettamente nel solco della sua filmografia, caratterizzata da un uso ipnotico della narrazione e da un'indagine spietata delle pulsioni umane. 
Se con Lo sconosciuto del lago  aveva costruito un thriller erotico rarefatto e perturbante ma che peccava di un profondo equivoco di partenza, insito tra l’altro fortemente nel suo cinema, e con Rester vertical  aveva sfidato con non troppo successo le convenzioni del realismo narrativo con un viaggio allucinato nel desiderio e nella perdizione, con Misericordia porta il suo cinema in una dimensione quasi metafisica, in cui il desiderio si scontra con le sue stesse ombre.
Ambientato in una regione rurale segnata dalla presenza pervasiva del bosco ( ricordate il bosco lacustre de Lo sconosciuto del Lago?), Misericordia segue il protagonista Jérémie  che torna nel suo villaggio di origine per il funerale del suo ex datore di lavoro presso cui cui aveva prestato servizio per tanti anni sin da ragazzo; un uomo che appare subito carico di ambiguità che si manifesta sia nell’incontro con la moglie del defunto che con il figlio e anche con un vecchio amico; da subito è chiaro che c’è qualcosa di detto e non detto che cova sotto le ceneri e che l’occasione del funerale possa diventare il momento di tirare i conti dopo tanti anni. Ben presto il protagonista si trova coinvolto in una storia torbida di eros ossessivo e di violenza. 
La narrazione si sviluppa attraverso un intreccio di incontri ambigui e situazioni che sfumano continuamente tra il reale e l'onirico, senza mai concedere punti fermi allo spettatore. 
Guiraudie, come sempre, costruisce un racconto in cui il paesaggio diventa un'estensione delle tensioni psicologiche e sociali dei personaggi: il bosco non è solo lo sfondo, ma una sorta di labirinto simbolico in cui il desiderio prende forma e si scontra con le sue conseguenze, insomma mette in scena il consueto teatro delle maschere della ambiguità del finto perbenismo, scivolando nel più classico dei thriller alla francese, che poi thriller in senso stretto non è perché dopo poco dall’inizio sappiamo già tutto e quello che dovremo seguire è come le pulsioni dei vari personaggi si confrontano tra di loro.
Misericordia si inscrive nella tradizione del thriller esistenziale, un genere che in Francia ha trovato esponenti di rilievo come Claude Chabrol, da cui Guiraudie sembra ereditare la capacità di costruire tensione attraverso dettagli minimi e situazioni apparentemente quotidiane, che nascondono un sottotesto di inquietudine e pericolo. Tuttavia, a differenza del maestro della Nouvelle Vague, che spesso giocava con il meccanismo del whodunit, Guiraudie svuota il thriller della sua componente investigativa per concentrarsi sulla dimensione psicologica ed esistenziale dei personaggi. 
Il film assume così una struttura minimalista ( in certi momenti sembra di assistere ad una versione noir di Eric Rohmer), in cui la narrazione procede per ellissi e sospensioni, lasciando che il paesaggio e le interazioni tra i personaggi sostituiscano l’azione esplicita. Il bosco diventa una sorta di teatro primordiale, un crogiolo ribollente  dove le dinamiche del desiderio e della paura si manifestano in forma archetipica, mentre l’intreccio si sviluppa in modo ellittico, senza mai fornire una chiara direzione o una risoluzione definitiva. 



Questo approccio radicale, che richiama anche certe sperimentazioni di Bresson e la tensione latente del cinema di Maurice Pialat, amplifica il senso di smarrimento e di angoscia, trasformando il film in un’esperienza sensoriale più che narrativa.
Tema cardine del film è il desiderio e la sua capacità di sovvertire l’ordine delle cose. In Misericordia, il desiderio si manifesta come un'energia anarchica e imprevedibile, che spinge i personaggi verso l'ignoto, esponendoli al pericolo e alla trasformazione. Guiraudie continua a interrogarsi su una domanda centrale della sua poetica: fino a che punto siamo disposti a seguire i nostri impulsi? E quale prezzo siamo disposti a pagare per questa libertà? Jérémie è un uomo in fuga, non solo da qualcosa di esterno, ma da sé stesso, e il film lo accompagna in una discesa in un territorio in cui il confine tra attrazione e paura, tra vita e morte, diventa sempre più sfumato.
L’elemento erotico, sempre presente nel cinema di Guiraudie, è qui declinato in una chiave più sottilmente inquietante. I corpi si attraggono e si respingono, il sesso è un atto che può essere liberatorio o predatorio, e la tensione tra desiderio e colpa attraversa tutta la narrazione. 
Tuttavia, ciò che rende Misericordia particolarmente incisivo è l'ambiguità che permea tutti i personaggi. Nessuno è esente da contraddizioni: Jérémie è un protagonista che oscilla tra vittima e carnefice, gli incontri che fa lungo il suo cammino sono segnati da un'ambivalenza che non permette mai di classificare nettamente buoni e cattivi, colpevoli e innocenti. 
In questo contesto, anche la figura del prete, apparentemente guida morale della comunità, si rivela sfaccettata e carica di tensioni latenti. I suoi comportamenti, che si muovono tra un'apparente accoglienza e un coinvolgimento sempre più ambiguo con le tensioni della comunità, suggeriscono una riflessione sulla fragilità del ruolo spirituale in una società dove il desiderio non può essere facilmente incasellato in categorie morali definite.

domenica 9 marzo 2025

Oh , Canada - I tradimenti [aka Oh , Canada] (Paul Schrader , 2024 )

 




Oh, Canada (2024) on IMDb
Giudizio: 7/10

Oh, Canada di Paul Schrader, col solito sottotitolo italiano che serve da accalappiapubblico, segna un nuovo capitolo nella filmografia del regista, esplorando con intensità i temi della memoria, della colpa e della verità personale. Presentato al Festival di Cannes 2024, il film si distingue per il suo approccio contemplativo e la sua struttura narrativa stratificata, che si snoda tra presente, confinato nell’appartamento del protagonista ormai visibilmente malato terminale,  e passato, che ci riporta fino agli anni della gioventù di Leonard, con grande raffinatezza.
Il film segue Leonard Fife (interpretato da Richard Gere), un documentarista di fama che negli anni '60 si rifugiò in Canada per evitare la chiamata alle armi durante la guerra del Vietnam. Ora, affetto da una malattia terminale, accetta di rilasciare un'ultima intervista a una troupe composta da suoi ex studenti di cinema, tra cui Malcolm  e Diana . 
Quella che doveva essere una sorta di summa agiografica della sua attività si trasforma sin da subito come una confessione, che avviene, per volere del protagonista, alla presenza della moglie Emma anche essa ex allieva , e che  diventa il pretesto per un viaggio doloroso attraverso il suo passato, in cui emergono tradimenti, scelte discutibili e un'identità più sfaccettata di quanto la sua immagine pubblica abbia mai lasciato intendere; ecco quindi che emergono delle verità che neppure la moglie conosce, la fuga in Canada non come scelta eroica di protesta contro la guerra in Vietnam, bensì come scelta puramente opportunistica dai contorni patetici, le relazioni avute con altre donne, la presenza di un figlio praticamente disconosciuto, una lunga scia di egoismo e di scaltro (neanche tanto) funambolismo morale.
La narrazione alterna sequenze ambientate nel presente con flashback che rivelano il giovane Fife e ciò comporta anche scelte tecniche diverse a seconda dell’epoca in cui è ambientato il racconto, considerando anche che Schrader non disdegna l’espediente del protagonista  che quasi come spettatore assiste al suo passato. 
La fotografia distingue chiaramente le due epoche: il presente è caratterizzato da toni più freddi e realistici, mentre il passato assume una qualità più evocativa e sfumata, quasi come se fosse filtrato attraverso la lente della memoria e del rimpianto.
Uno degli aspetti più affascinanti di Oh, Canada è il modo in cui Schrader affronta il contrasto tra la percezione pubblica e la realtà privata di un individuo. 
Leonard Fife è stato celebrato come un uomo di principi, un artista impegnato, un simbolo di resistenza, un difensori dei diritti civili. Tuttavia, il film svela progressivamente come molte delle sue scelte siano state dettate non tanto da una convinzione incrollabile, quanto piuttosto da paure personali, molto spesso opportunismo ed egoismo e desiderio di sopravvivenza. Schrader non giudica il suo protagonista, ma lo osserva con uno sguardo lucido e impietoso, lasciando allo spettatore il compito di trarre le proprie conclusioni.



Il film si inserisce perfettamente nella tradizione del "cinema della colpa" di Schrader, che ha spesso esplorato figure tormentate dal proprio passato (First Reformed, The Card Counter, Master Gardener), sebbene quella da espiare per il protagonista è una colpa  più di tipo morale. Qui, però, la riflessione si fa ancora più intima e meno legata a un'idea di redenzione religiosa, concentrandosi piuttosto sulla relatività della verità e sulla difficoltà di convivere con le proprie scelte.
Un altro tema centrale è quello della memoria e della narrazione personale. L'intervista che Fife rilascia è un tentativo di riscrivere la propria storia, di raccontarsi per l'ultima volta prima della morte. Ma quanto di ciò che dice è davvero sincero? Quanto è manipolazione o autoassoluzione? Schrader gioca con queste ambiguità, mettendo in discussione il concetto stesso di testimonianza e lasciando che le contraddizioni emergano senza forzare risposte definitive, inserendo di diritto il personaggio di Leonard in quella ormai lunga sua carrellata di personaggi nei quali l’ambiguità è sempre una caratteristica fondamentale.
L'ambiguità morale del protagonista è uno degli elementi più caratteristici del cinema di Schrader e trova qui una delle sue espressioni più profonde. Fife è un uomo che si è sempre visto come una persona giusta, ma che è costretto a confrontarsi con le ombre del proprio passato. Ha davvero agito per ideali o ha solo trovato una scusa per fuggire da una responsabilità scomoda? 
La sua ricerca di redenzione non è lineare: più si racconta, più emergono dettagli che rendono difficile stabilire se sia un eroe mancato o un uomo che ha sempre cercato di salvarsi prima degli altri. Schrader costruisce così un protagonista che non è mai completamente positivo né completamente negativo, ma umano nelle sue contraddizioni. 
La sua confessione finale, invece di offrire una catarsi, lascia aperti interrogativi profondi sulla natura della sua colpa e sul significato della redenzione, quasi che il tutto sia stato solo un tentativo estremo, sul filo di lana, da parte del protagonista di trovare una sua redenzione , anche fasulla e ipocrita, ma pur sempre sufficiente a farlo morire in apparente pace interiore.

sabato 8 marzo 2025

Itaca-Il ritorno [aka The Return] ( Uberto Pasolini , 2024 )

 




The Return (2024) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

Uberto Pasolini, con The Return – Itaca, il ritorno, compie un’operazione cinematografica audace: svuota l’epopea di Omero della sua dimensione eroica e mitologica per restituirne un’anima profondamente umana, dolorosa e fragile. Il viaggio di Odisseo non è più il racconto di un guerriero che trionfa sugli dèi e sulle avversità, ma quello di un uomo spezzato dal tempo, dalla guerra e dall’assenza. 
In questa rilettura minimalista, il ritorno non è un trionfo, ma un faticoso processo di riconciliazione con il passato e con se stessi; Pasolini non è nuovo a racconti minimalisti che contengono però una profondità sorprendente e Itaca , il ritorno mostra questa caratteristica ormai tipica del cinema di Pasolini.
Interpretato con straordinaria intensità da Ralph Fiennes, Odisseo è qui un uomo logorato dal viaggio, appesantito dagli anni e dalle memorie che lo perseguitano. Il suo ritorno a Itaca non è un’epica rivalsa, ma un percorso intriso di esitazione e paura a cominciare dal suo risorgere dal mare come unico superstite della campagna di guerra durata molti anni e conclusa col trionfo di Troia. 
Pasolini esplora il lato intimo dell’eroe, mostrandoci un Odisseo che non è più certo di ciò che troverà, che si nasconde all’inizio nelle vesti di un mendicante che trova accoglienza presso il suo servo più fidato che non a caso sarà l’unico a sospettare subito di questo vagabondo straniero che si presenta ad Itaca reduce dalla guerra per avere conferma con il commovente incontro tra Ulisse ed  Argo il cane che lo attende , ormai vecchio, da anni. Il tempo ha trasformato non solo lui, ma anche la sua terra e le persone che ha lasciato. Questa incertezza lo rende fragile, quasi un’ombra dell’uomo che partì vent’anni prima.
Juliette Binoche interpreta una Penelope che incarna la strenua forza di volontà e la solitudine; il suo personaggio, privato di qualsiasi aura leggendaria, diventa il simbolo di un’attesa dolorosa e consapevole. La sua tela non è solo un trucco per ingannare i Proci, ma il riflesso di una donna che cerca di mantenere intatto un passato che le sta sfuggendo tra le dita. Tuttavia, il ritorno di Odisseo non porta con sé la tanto agognata serenità, bensì un’inaspettata estraneità. L’uomo che le sta di fronte non è più quello che ha sposato, ma un’ombra di ciò che era, un uomo tormentato da anni di guerre, di sangue e di perdite. Penelope osserva suo marito con una distanza che non è solo fisica, ma emotiva e simbolica.
In questa lettura, il personaggio di Penelope assume quasi un ruolo anti-bellico: il suo pacifismo è accentuato fino al punto da renderla una figura quasi idealizzata, in contrasto con l’oscurità che la guerra ha impresso su Odisseo. Lei rappresenta la casa, il rifugio, la continuità, ma anche la difficoltà di accogliere un uomo che porta dentro di sé il peso della morte e della distruzione. 
La sua diffidenza iniziale non è solo il frutto di un test di riconoscimento, come nell’epopea omerica, ma una vera e propria reazione emotiva alla trasformazione di chi un tempo amava. Questo scontro silenzioso tra la quiete e la tempesta interiore del reduce diventa uno dei nuclei emotivi più forti del film, rendendo Penelope non solo una moglie in attesa, ma un simbolo di un mondo che rifiuta la guerra e le sue conseguenze devastanti, che inorridisce di fronte alla atroce vendetta che il marito mette in atto contro i Proci.
Uno dei fili conduttori del film è il tempo come forza inarrestabile che trasforma tutto, erodendo le certezze e ridefinendo i legami. Odisseo torna, ma non torna mai veramente: ciò che ha lasciato non esiste più, e il tempo ha reso Itaca un luogo quasi estraneo. Il suo ritorno non è solo un confronto con la propria terra, ma con la propria memoria, che si scontra con la realtà presente. Ogni cosa è cambiata: gli amici sono invecchiati o scomparsi, l’armonias ha lasciato il posto al caos, le usanze si sono evolute, persino la natura sembra aver preso una forma diversa. Ma il cambiamento più doloroso è quello che riguarda la sua famiglia.



Il rapporto con Telemaco  è il nodo centrale di questa trasformazione: un figlio cresciuto senza padre, che ha imparato a definirsi senza la sua presenza e ora fatica a riconoscere l'uomo che si presenta come tale. Il tempo ha creato un solco tra loro, un’assenza che non può essere colmata con la semplice riapparizione di Odisseo. 
Anche Penelope non è più la donna che lo attendeva con devozione: la sua lunga attesa l’ha resa forte e indipendente, e il marito che le ritorna appare più come uno sconosciuto che come il compagno perduto. Il film ci mostra come il tempo non sia solo un testimone silenzioso, ma un vero e proprio agente di trasformazione, capace di ridefinire le identità e i rapporti umani in modo irreversibile.
L’idea dell’identità smarrita si manifesta anche nella difficoltà di Odisseo di riconoscersi nel ruolo che aveva un tempo: marito, padre, re. Il tempo e l’esperienza lo hanno trasformato in qualcosa di diverso, e ciò che un tempo definiva la sua esistenza ora gli appare distante, sbiadito. In questo senso, The Return non è solo il racconto di un ritorno fisico, ma di un’odissea interiore: il viaggio di un uomo che cerca di riconciliare il proprio passato con il presente, consapevole che nulla può mai tornare davvero com’era.
Il tempo insomma è una  forza inarrestabile che inesorabilmente trasforma tutto: Odisseo torna, ma non torna mai veramente, ciò che ha lasciato non esiste più, e il tempo ha reso Itaca un luogo quasi estraneo, egli stesso  manifesta una dolorosa difficoltà di riconoscersi nel ruolo che aveva un tempo in quella terra e cioè essere marito, padre, re.
Pasolini sceglie di eliminare gli elementi soprannaturali del mito per concentrarsi sull’aspetto umano del ritorno dalla guerra. Odisseo porta con sé le cicatrici di un passato che non può dimenticare, un passato che lo ha trasformato in un uomo profondamente segnato, non solo fisicamente ma anche psicologicamente. 
Il film affronta il tema del trauma post-bellico con estrema delicatezza, restituendoci l’immagine di un uomo il cui equilibrio interiore è stato alterato per sempre dal lungo conflitto e dagli orrori vissuti. Il campo di battaglia non è solo Troia, ma l’animo stesso di Odisseo, devastato da una guerra che non si è conclusa con il ritorno a casa, ma continua a tormentarlo nei ricordi e nei silenzi.

sabato 1 marzo 2025

A Complete Unknown ( James Mangold , 2024 )

 




A Complete Unknown (2024) on IMDb
Giudizio: 8/10


James Mangold torna alla biografia musicale dopo Walk the Line, opera incentrata sulla figura di Johnny Cash, che raccontava un’altra leggenda della musica americana di tutti i tempi, con A Complete Unknown, un'opera che ricostruisce gli anni fondamentali della carriera di Bob Dylan, concentrandosi sulla sua ascesa nel panorama folk dal suo sbarco a New York nel 1961 fino  alla controversa svolta elettrica del 1965; più o meno lo stesso segmento temporale che Martin Scorsese  focalizzò nel suo documentario No Direction Home del 2005. 
Il film non è un semplice biopic cronologico, ma un ritratto intimo  di un artista che ha sempre sfuggito le definizioni, incorniciato da un'epoca di fermento culturale e rivoluzione artistica. 
Il film ha raccolto svariate nomination per i prossimi premi Oscar , con buone possibilità, secondo i bene informati, di portare a casa qualche statuetta.
Il film si apre con l'arrivo di Dylan a New York all'inizio degli anni Sessanta per incontrare il suo idolo Woody Guthrie che però  giace gravemente malato in ospedale; un ragazzo  con la chitarra e una visione ben chiara: archetipo del menestrello solitario che giunge in città con il desiderio di poter inserirsi nel vivace panorama artistico musicale del Greenwich Village. 
Timothée Chalamet, nel ruolo del giovane Dylan, incarna con sensibilità l'energia e il mistero del cantautore, alternando momenti di grande carisma a sprazzi di vulnerabilità. La performance dell’attore non si limita a un'imitazione: restituisce la complessità di un personaggio che, fin da subito, si muove tra autenticità e costruzione della propria immagine.
Il Greenwich Village è riprodotto con cura, sia nelle ambientazioni che nelle dinamiche tra artisti. Dylan si fa notare nei club fumosi e nei ritrovi bohémien, dove si guadagna l’attenzione di figure chiave come  Pete Seeger prima, personaggio centrale del panorama folk e di Joan Baez poi con la quale instaura un rapporto anche sentimentale e che durerà per tutta la vita seppure tra alti e bassi. 
Mangold evidenzia l’influenza che questi personaggi, insieme a Sylvie, alterego di Suze Rotolo,  hanno avuto sulla crescita di Dylan, mostrando al contempo il contrasto tra il loro idealismo politico e la crescente indipendenza artistica del giovane cantante. La relazione con Baez è uno dei fili narrativi più interessanti: il film non si sofferma sulla loro storia d’amore in senso tradizionale, ma piuttosto sulla tensione tra due artisti con visioni divergenti del folk e del ruolo della musica nella società.
Il cuore tematico del film risiede nella svolta elettrica di Dylan, culminata nel celebre concerto del Newport Folk Festival del 1965. Dopo aver conquistato il pubblico come un profeta del folk acustico, Dylan sorprende tutti imbracciando una chitarra elettrica e accompagnandosi a una band rock. Mangold costruisce questa sequenza con grande intensità: il boato della folla, le espressioni sgomente degli organizzatori e l’ostilità dei puristi del folk creano un’atmosfera carica di tensione. Qui il film esplora il concetto di evoluzione artistica e il peso delle aspettative del pubblico: Dylan, considerato il portavoce di una generazione, si ribella alla sua stessa immagine e sceglie di seguire la propria visione musicale.


Questo conflitto tra tradizionalisti e innovatori non è solo un episodio della storia della musica, ma una metafora dello scontro generazionale che caratterizzò gli anni ’60. 
In un periodo segnato da lotte per i diritti civili, proteste contro la guerra in Vietnam, guerra fredda che arriva ad un passo dal baratro e rivoluzioni culturali, Dylan incarna la figura dell’artista che si rifiuta di rimanere intrappolato nel passato e che mentre l'America è scossa dai fremiti di terrore per la crisi della Baia dei Porci a Cuba, canta nel locali del Village Masters of War. 
I puristi del folk, con il loro attaccamento alla canzone di protesta e alla tradizione popolare, rappresentano un mondo che fatica ad accettare il cambiamento, mentre la nuova generazione abbraccia l’energia trasformativa del rock. Questo scontro si riflette su scala globale: in quegli anni, la musica diventa il campo di battaglia di un’intera rivoluzione culturale, in cui il vecchio e il nuovo si confrontano aspramente in ogni ambito della società, e in cui progresso e tradizione sono ben lungi dall’essere due entità nette e separate, anzi spesso tendono a fondersi e sovrapporsi creando pericolosi corto circuiti.
Oltre alla trasformazione musicale, A Complete Unknown esplora la psicologia di Dylan e il suo rapporto con la fama in un contesto storico e sociale in rapido mutamento. 
Il film mostra il cantautore come un personaggio sfuggente, a tratti inafferrabile, schivo e quasi scocciato dall’affetto dei fans tanto da apparire  altezzoso , un uomo che sembra a disagio con il proprio mito, mentre l’America degli anni ’60 attraversa un periodo di profonde tensioni e cambiamenti. Il movimento per i diritti civili, le proteste contro la guerra in Vietnam e la crescente sfiducia nelle istituzioni influenzano il panorama musicale, trasformando la canzone folk in un veicolo di denuncia sociale. 
Dylan, inizialmente visto come il portavoce di una generazione ribelle, sceglie di sottrarsi a questa etichetta, rifiutando di essere intrappolato in un ruolo che non sente suo e che diventa, questo rifiuto di omologazione, uno dei punti fermi della sua carriera ( “Io non voglio diventare come loro vorrebbero che fossi” è il concetto che svariate volte in maniera più o meno esplicita Dylan afferma durante il film)
Chalamet riesce a catturare il distacco emotivo e la difesa costante di Dylan nei confronti del mondo esterno. La sua performance rende giustizia al carattere introverso del cantante, alle sue risposte sfuggenti nelle interviste, al desiderio di sottrarsi alle etichette e alle definizioni imposte dai media, in un periodo in cui la musica era un’arma di protesta e trasformazione culturale su scala globale.
Ma il film sottolinea anche come il talento e la genialità di Dylan non possano essere imbrigliati o controllati. L’artista appare come una figura liminale, sempre in bilico tra il mondo che lo circonda e una dimensione più astratta, nella quale la sua creatività diventa un flusso inarrestabile e inafferrabile. 
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