martedì 31 gennaio 2012

Letter from the mountain ( Takashi Koizumi , 2002 )

Giudizio: 7/10
La quiete della montagna

Dopo l'eccellente esordio alla regia in After the rain che portava a termine il progetto rimasto incompiuto del suo Maestro Akira Kurosawa, Takashi Koizumi dopo tre anni torna alla regia con l'ambiziosissimo Letter from the mountain, un film che adagiandosi su toni elegiaci ostinatamente pacati tratta temi che vorrebbero essere universali: la morte e la vita, la malattia e la vecchiaia, la tradizione e la modernità, la vita frenetica di città e quella calma e rilassante di campagna.
Takao decide di tornare a vivere nel suo villaggio natale adagiato tra le montagne fra il verde abbagliante delle piantagioni di riso con l'intento di far guarire la moglie Michiko dalle sue crisi di panico che la affliggono.

Il ritorno alle origini, l'incontro con le persone che aveva conosciuto nella sua giovinezza, il clima quasi sospeso nel tempo e la bellezza dei paesaggi lo portano a rivedere il senso della sua vita, affidandosi spesso a citazioni letterarie o a racconti pubblicati sul giornale del villaggio, vecchie memorie della signora Ume, ormai ultranovantenne che vive in un piccolo tempio venerando Buddha.
Le riflessioni che emergono dai dialoghi e dai soliloqui portano nella direzione della rilettura della vita moderna contrapposta alla purezza della vita di campagna che ancora si basa su robuste tradizioni e sul loro rispetto sacro.
Cercando un connubio totale tra Uomo e Natura, Koizumi costruisce un film dove succede poco o nulla, dove la parola , il ricordo e l'introspezione regnano incontrastati ammantandosi di una dose di spiritualità che a volte appare perfino eccessiva.
Indubbiamente il film ha solide basi sincere, le intenzioni narrative sono ammirevoli e il suo dispiegarsi nella narrazione soprattutto nella prima parte crea una atmosfera rarefatta che invita alla introspezione; viceversa, la ricerca quasi spasmodica di un clima poetico in cui immergere i dialoghi, che sono il cardine del film, appare a volte fin troppo artificioso, il frequente ricorso ad immagini cromaticamente bellissime ma avulse dalla narrazione, interposte quasi come cartoline paesaggistiche, non fa altro che rinfocolare una atmosfera di maniera.
Nel complesso il film ha il suo valore, ma riflettendo su qualche scelta narrativa si ha l'impressione di una occasione persa, di avere solo sfiorato una pellicola che avrebbe potuto ergersi a capolavoro, come da più parti tra l'altro è stato omaggiato il film.
Da segnalare la superba prova interpretativa di Akira Terao e di Kanako Higuchi, ma soprattutto della splendida Tanie Kitabayashi, matriarca del cinema giapponese.

2 commenti:

  1. Uhm, io invece lo considero uno dei migliori film giapponesi degli ultimi anni... non ho trovato i difetti di cui parli, anche se capisco sia un discorso estremamente soggettivo... ciao, c

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  2. Intendiamoci: il film non è brutto, anzi, però quella ricercata "tranquilla verbosità" in alcuni momenti stona un po', poi ovviamente vale ciò che hai detto, e cioè che la valutazione soggettiva in certi casi gioca un ruolo predominante.

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