La metafora immersa nel sogno
L'opera seconda di Jie Han giunge con il cappello protettivo addirittura di Jia Zhangke in veste di produttore (ed in un certo qual modo anche di ispiratore occulto) ed il risultato è piacevolmente sorprendente: un film in cui l'aspetto tanto caro a Jia, in cui si scruta una provincia cinese che appare abbandonata alla deriva si fonde con una visione onirica-spirituale che nasconde una chiara metafora sull'odierna società cinese.
Il racconto ruota intorno a Shu ( che significa albero, nome non casuale), personaggio mezzo stravagante mezzo emarginato, che vive nella profonda provincia del paese in uno di quei villaggi in cui il tempo sembra fermo, non fosse per i cellulari e per qualche auto moderna che gira per le strade scalcinate spesso ricoperte di neve. Come molti luoghi della provincia anche il villaggio in cui vive Shu deve lasciare spazio alla miniera di carbone che serve ad alimentare il sogno di ricchezza oltre che ad impestare l'aria ed intorno crescono delle "luminose" new town, come ossessivamente propaganda il camioncino con l'altoparlante che vediamo spesso girare per le vie.
Per l'uomo però questo non appare un problema, segnato come è dal ricordo di un padre e di un fratello entrambi morti, quest'ultimo in circostanze atroci: i morti popolano i suoi sogni ,soprattutto il padre tirannico, mentre del fratello non riesce ad avere notizie dall'aldilà.
Emarginato e spesso deriso dai coetanei, un fratello che vede in lui solo un mezzo scemo, una madre anziana, amici che tornano dalla città dove hanno trovato una collocazione sociale più degna, Shu si innamora di una giovane sordomuta che presto sposerà.
Dal giorno del suo matrimonio il racconto della storia di Shu intraprende la via segnata dai sogni, dalle premonizioni, da una realtà quasi parallela in cui l'impossibile sembra avverarsi, e ci conduce ad un finale molto sfumato in cui la metafora dell'esistenza umana e della società si incontrano.
Nella prima parte il film sembra ricalcare quel cinema proprio di alcuni registi della Sesta Generazione, tra cui Jia stesso, ricco come è di descrizioni sociali e di prospettive che cambiano sotto i colpi della modernizzazione cui anche la provincia ormai non può sottrarsi: le strade del villaggio di Shu, le facce, le case , gli abiti, tutto sembra richiamare alla mente quei lavori che raccontano come lontano dalle grande metropoli cambia la vita della gente comune.
Quando però Jie Han, con grande tempismo , getta sul piatto della bilancia la sua visione ricca di metaforici sogni e di soprannaturale, la narrazione prende una via che traspira poesia e soavità sorprendenti e ci racconta di migrazioni, di abbandoni, di famiglie spezzate e di radici frantumate con una forza ed efficacia che non sempre si trovano nei film in cui l'aspetto sociologico del cambiamento in corso nella vita di tanti cinese è la trave portante della pellicola.
Ed è proprio in questo aspetto, a metà tra sogno e spiritualità, che il lavoro di Jie Han trova la giusta via per fare centro, risultando un film che sa anche quasi "divertire" con toni a tratti leggeri, che trascinano però con sè sempre tematiche profonde.
Piccolo discorso a parte merita la fantastica prova interpretativa di Wang Baoqiang, senza la quale probabilmente il film non avrebbe avuto lo stesso impatto: con una bravura straordinaria riesce a dare un volto cui ci si affeziona subito a Shu, perennemente con la sigaretta in mano, spesso stralunato e perso nella ricerca dei suoi sogni.
ciao missile, sembra che le cose più interessanti ultimamente girino attorno al nome di jia zhangke. 24 city l'avevo adocchiato da un po'. intanto io sono stato sfrattato, il nuovo indirizzo è http://slowfilm.wordpress.com/ . alla prossima.
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