Giudizio: 7/10
Pechino all'alba del Terzo Millennio
Cineasta cinese votata da sempre al racconto dei cambiamenti epocali che hanno investito la Cina a cavallo dei due millenni, Ning Ying con I Love Beijing, ultimo atto della Trilogia su Pechino, porta in scena con un occhio talmente realista da sembrare a volte un documentario, una storia semplice, quasi banale in cui più che quello che si vede e si racconta è quello che c'è dietro, sullo sfondo ad interessare maggiormente la regista.
Il giovane taxista Desi fresco divorziato dopo una colorita quanto emblematica sceneggiata da cortile, si trova a vagare per la città col suo taxi, seguendo a stento la frenesia che monta nella città.
La sua labilità sentimentale post-divorzio lo porta a stringere rapporti con altre donne, sempre però all'insegna di una superficialità e di una aridità, specchio di uno smarrimento che si mescola alle incertezze che i cambiamenti che attraversano la società portano con sè.
Il suo muoversi in una città in cui tutto sta cambiando, comprese le persone, diventa un viaggio che porta a galla paure e aspirazioni, ricerca spasmodica dell'arricchimento e lavori che impongono una sorta di riciclaggio individuale; Pechino sembra una città costruita con i mattoncini Lego: cantieri ovunque, ponti nuovi dappertutto, palazzi che sorgono dal nulla, scintille delle saldature che illuminano la notte nella quale c'è spazio per i nuovi bulli, per arricchiti in cerca di divertimento e per solitari dispersi in un tessuto urbano tanto sterminato quanto confuso.
Già dalla scena iniziale in cui la vecchia Cina delle biciclette si fonde con quella nuova dei viali intasati di macchine , di autobus e filobus creando un caos inestricabile dimostra come Ning Ying abbia a cuore il racconto di una società che si specchia nella città in fermento cui fa fronte lo smarrimento di chi non riesce ad adeguarsi a ciò.
Spesso il racconto, soprattutto quando il protagonista si muove in taxi per Pechino assume i toni del documentario senza avere però alcuna aspirazione alla denuncia sociale nè politica: nonostante ciò la regista pensò bene di modificare il titolo cinese per timore che quel I love Beijing suonasse troppo sarcastico.
L'aspetto che più appare valido nel film è quello che descrive un'epoca storica, come fu ad esempio il cinema italiano negli anni 60 da cui traspariva l'ottimismo tipico di un boom economico inarrestabile; qui più che l'ottimismo è la paura e lo smarrimento quello che più rappresenta un paese che in quegli anni si affacciava definitivamente nel mondo globalizzato.
I Love Beijing è in definitiva un piccolo film, ma che rimarrà un documento di notevole importanza di una epoca storica che ha sicuramente segnato le sorti della Cina moderna.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.