Giudizio: 6.5/10
Nonostante la sua produzione si sia ridotta negli ultimi anni a solo un paio di lavori a stagione, anche quest'anno Herman Yau non ha voluto far mancare il suo contributo al Far East Film Festival di Udine: dopo il dramma sociale di Sara dell'anno scorso, quest'anno abbiamo assistito al ritorno ad uno dei generi che più di ogni altro hanno fatto la storia della recente cinematografia HKese; Yau, uno degli ultimi paladini della fierezza cantonese cinematografica e non solo, dirige The Mobfathers, una storia di gangsters legata al mondo delle triadi.
Come consuetudine il regista , nonostante il genere e le tematiche non siano di quelle originalissime, riesce comunque a dire la sua, usando una prospettiva che presenta forti implicazioni sociali e politiche.
The Mobfathers è il racconto di una aspra e truce guerra all'interno di una famiglia delle triadi fra bande che vogliono assicurarsi il controllo degli affari della intera gang: il vecchio padrino è malato di tumore alla prostata, gira col catetere e parla con un filo di voce quasi come don Corleone, i grandi capi debbono designare due successori tra i quali poi in una elezione in stile setta verrà deciso il vincitore.
Da un lato c'è Chuck, appena uscito di galera per una rissa avvenuta anni prima e divenuto padre mentre era in carcere, dall'altro Wulf, un personaggio direi al limite ( per il genere) e forse oltre, non tanto per il suo pacchiano abbigliamento, ma anche perchè chiaramente di tendenze omosessuali.
La guerra tra i due vedrà coinvolte anche le altre bande della famiglia in una continua ricerca di alleanze e di atti di forza finalizzati a giungere al verdetto conclusivo con il coltello dalla parte del manico; il tutto sotto lo sguardo furbo ed ambiguo del malandato padrino che impersonifica il vecchio stile delle triadi HKesi.
Finale a tinte forti, eccessivo, quasi pulp dietro al quale si nascondono però una serie di osservazioni politche.
Se nella prima parte il film di Herman Yau sembra atteggiarsi quasi a commedia in stile gangsteristico, forte di una certa brillantezza e di situazioni che spesso strappano il sorriso, la parte centrale sembra invece avere come modello Election di Johnnie To, quella finale infine è improntata ad un nichilismo estremo, una fine del mondo gangster in perfetto stile.
Come abbiamo detto The Mobfathers è lavoro che non va a cercare strade nuove, sceglie invece di mantenere il suo stile popolare nel quale però il regista , tra metafore e riferimenti più o meno palesi, ci offre la sua visione attuale dell'ex colonia britannica: la richiesta decisa di Chuck di eleggere il nuovo capo con una sorta di suffragio universale tra tutti i membri della famiglia, a discapito della decisione presa invece dalla stretta cerchia dei boss, ad esempio, è un chiaro riferimento alla situazione politica di Hong Kong rispetto al governo centrale di Pechino; la battaglia fuori da ogni regola dove tutto è ammesso per assicurarsi il predominio lascia intravedere il degrado delle tradizioni di Hong Kong.
Insomma affermare che The Mobfathers va spesso oltre la linea puramente cinematografica tracciata dal racconto non appare certamente un giudizio avventato; d'altronde Herman Yau è regista sempre molto sensibile alle tematiche di attualità , sebbene, da buon artigiano del cinema, rimane fortemente legato allo spirito popolare del racconto.
Va detto che forse il meglio di sè il film lo dà nella prima parte , anche perchè è quella nella quale maggiormente possiamo apprezzare le doti istrioniche e fondamentalmente brillanti di Chapman To nel ruolo di Chuck, così come la figura del vecchio padrino ormai prossimo a stirare le cuoie ha i tratti ironici meglio delineati; inoltre le situazioni presenti in questo frammento del film , spesso a sfondo pruriginoso ed allusivo, ben si sposano col tono generale, come detto, più vicino alla commedia.
Nel suo insieme The Mobfathers è comunque lavoro che presenta alcuni aspetti solidi e ben strutturati sebbene frammisti a momenti che convincono molto meno; se da un lato Chapman To conferma la sua bravura nei ruoli tendenti al cialtronesco, dall'altra la sua credibilità come aspirante boss spietato è tutt'altro che ferrea, magari solo per il suo background cinematografico; Anthony Wong , anche se in una parte tutto sommato secondaria, permea il film col suo ben noto carisma dando credibilità ad un personaggio bizzarro.
Infine va segnalata l'ennesima, eccellente prova di Philip Keung, sempre più a suo agio in quei ruoli che una volta si sarebbero chiamati "da caratterista", che una volta tanto non sarebbe male vedere all'opera in parti da protagonista.
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