lunedì 8 dicembre 2025

The New Year That Never Came ( Bogdan Muresanu , 2024 )

 



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Giudizio: 8/10

Con The New Year That Never Came, il regista romeno Bogdan Mureșanu firma il suo lungometraggio d’esordio, un’opera che affonda le radici nella memoria collettiva e personale, affrontando uno dei momenti più traumatici e al tempo stesso fondamentali della storia recente della Romania: la caduta del regime di Nicolae Ceaușescu e la fine del comunismo nel dicembre del 1989. A trentacinque anni da quegli eventi, Mureșanu sceglie di guardare indietro con lo sguardo duplice di chi allora era un adolescente – aveva appena quindici anni – e di chi oggi, adulto e regista, tenta di dare forma cinematografica a un trauma storico ancora irrisolto, stratificato tra il mito, la disillusione e la memoria personale.
Il film si apre nei giorni convulsi tra Natale e Capodanno del 1989 , culminati con l’esecuzione di Ceaușescu e della moglie Elena, con il paese che si trova improvvisamente senza guida, sospeso tra euforia e paura. 
Mureșanu costruisce una narrazione corale, intrecciando le vite di diversi personaggi che rappresentano, ciascuno a modo suo, una parte del mosaico sociale di quell’epoca e che praticamente si sfiorano soltanto dal punto di vista narrativo ma che esprimono ognuno un particolare settore della società romena dell’epoca: ufficiali dell’esercito, agenti della temutissima Securitate, attori in crisi , operai usati per la propaganda, ragazzini che si ritrovano ad essere senza alcuna volontà spie che rischiano di minare la famiglia.
Questi volti non sono tanto figure individuali quanto simboli collettivi, incarnazioni di una nazione che si scopre improvvisamente senza punti di riferimento, costretta a guardare dentro se stessa per capire cosa significhi libertà dopo decenni di menzogna e paura. Mureșanu, che in passato si era fatto notare con il cortometraggio The Christmas Gift , già dedicato al clima surreale degli ultimi giorni del regime, amplia qui quella prospettiva, trasformando il racconto intimo in una cronaca esistenziale e politica, dove ogni gesto quotidiano è carico di ambiguità morale.
Il titolo, The New Year That Never Came, suggerisce subito la dimensione sospesa del tempo: un Capodanno che non arriva mai, simbolo di una promessa mancata, di un “nuovo inizio” che resta imprigionato tra il desiderio di cambiamento e la paura del vuoto.
Mureșanu costruisce il film come un lungo crepuscolo, dove la luce grigia e invernale di Bucarest si mescola alle ombre della notte, e dove il rumore lontano degli spari si confonde con quello dei fuochi d’artificio. È un mondo in transizione, né più comunista né ancora libero, dove la verità è continuamente riscritta da chi detiene, anche solo per un giorno, il controllo del potere e della parola.
La struttura narrativa non è lineare: Mureșanu frammenta il racconto in episodi paralleli che si incrociano in modo apparentemente casuale, ma che progressivamente rivelano una precisa architettura simbolica. 



L’approccio registico di Mureșanu è sobrio, controllato, quasi documentaristico, ma la sua freddezza visiva è bilanciata da una profonda tensione emotiva. Le inquadrature fisse e i piani medi dominano la messa in scena, mentre la macchina da presa raramente si muove: osserva, attende, lascia che siano gli sguardi e i silenzi a parlare. In questa immobilità apparente, si avverte però un continuo fremito, una vibrazione interiore che restituisce al film una densità morale e umana straordinaria.
Non c’è enfasi patriottica né celebrazione eroica: Mureșanu rifiuta la retorica della rivoluzione per restituire piuttosto il disorientamento collettivo di un paese che cambia senza capire cosa stia realmente succedendo. 
È un film sulla fine di un mondo, ma anche sull’incapacità di riconoscere l’inizio di un altro. In questo senso, The New Year That Never Came si colloca idealmente accanto a opere come A est di Bucarest di Corneliu Porumboiu o La morte del signor Lazarescu di Cristi Puiu, condividendo con il Nuovo Cinema Romeno la volontà di interrogare la Storia attraverso lo sguardo dei suoi testimoni anonimi.
Pur essendo il suo esordio nel lungometraggio, Mureșanu dimostra una sorprendente maturità narrativa e formale. La sua regia è priva di compiacimento, essenziale ma precisa, sempre attenta ai dettagli che definiscono l’atmosfera: una radio che gracchia notizie contraddittorie, un albero di Natale spento in un appartamento gelido, un brindisi improvvisato con bicchieri di plastica e lacrime. Tutto concorre a costruire un clima di sospensione che restituisce la sensazione di un tempo congelato, di una festa che non arriva mai.

sabato 6 dicembre 2025

No Other Choice [aka Non c'è altra scelta] ( Park Chanwook , 2025 )

 



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Giudizio: 8.5/10

No Other Choice ( pedissequamente tradotto in Non c'è altra scelta nella versione italiana) di Park Chan-wook —autore che torna a Venezia giusto 20 anni dopo Lady Vendetta, è un’opera che, manifesta con forza la cifra estetica e morale del suo autore il quale dimostra ancora una volta di trovarsi a suo agio anche al di fuori del suo ambito cinematografico nazionale.
Il film, ispirato al romanzo The Ax di Donald E. Westlake e già portato sullo schermo col titolo Cacciatore di teste da Costa Gravas cui Park dedica la sua opera, racconta la storia di You Mansu (interpretato da un eccellente Lee Byung-hun), un uomo che, dopo aver dedicato 25 anni della sua vita a un’industria cartaria, viene improvvisamente licenziato in seguito ad una riorganizzazione dettata dai nuovi proprietari americani della industria. 
Di colpo, la sua sicurezza economica, la sua posizione sociale, la quotidianità della famiglia — basata su uno status acquisito — vengono spazzate via. In un mercato del lavoro feroce e implacabile, in un Paese dove la competizione è spietata e i posti sempre più rari, Mansu decide di reagire a modo suo: architetta un piano spietato per ottenere un nuovo impiego, una sorta di gioco ad eliminazione.
Questa parabola al limite dell’assurdo — eppure tragicamente credibile — è l’asse attorno a cui ruota il film, che, pur partendo da una premessa quasi grottesca su cui Park indugia molto mostrando il suo consueto humor nero e sarcasmo, si trasforma progressivamente in un poderoso atto di denuncia sociale e di riflessione esistenziale che culmina in un finale agrodolce nel quale si sedimenta tutto il dramma della vicenda.
Uno dei temi centrali di No Other Choice è come il lavoro, nella società contemporanea , e in particolare in quella sudcoreana, con le sue pressioni economiche e sociali e la sfrenata competitività , non sia solo un mezzo di sostentamento, ma l’asse intorno a cui ruota la dignità individuale, l’identità, lo status. Per Mansu la perdita del lavoro non è una semplice “perdita di stipendio”: è un’“ascia” che tronca le aspirazioni, cancella certezze, distrugge gerarchie familiari. 
Il film evidenzia come, di fronte alla precarietà e all’“ottimizzazione” spietata del capitale, ogni elemento identitario ( mestiere, posizione, abitazione, ruolo di capofamiglia ) diventi fragile.
La narrazione scava nella paura  molto reale  della discesa sociale: la perdita del lavoro significa non solo crollo economico, ma perdita di status, vergogna, impotenza. Mansu teme non solo per sé, ma per la sua famiglia, per il tenore di vita, per il futuro dei figli. La tensione sociale, la competitività esasperata, la scarsità di opportunità rendono quasi inevitabile la deriva verso la disperazione che si concretizza nella rinuncia alle automobili, agli indici dello status sociale agiato quale le lezioni di tennis della moglie, persino l'abbandono dei cani "perchè non ce la facciamo a sfamare tutte queste bocche".
Il film mette in luce il crollo delle certezze e le conseguenze psicologiche — gelosia, tensioni, sfiducia — che si intrecciano col senso di colpa e la percezione di impotenza. La disgregazione non è solo materiale, ma morale e familiare. 


In questo scenario, la morale tradizionale  è schiacciata dalla logica della sopravvivenza. Nel film, “non c’è altra scelta” diventa la frase-salvezza: un alibi che giustifica il tradimento, la menzogna, persino l’omicidio e che al contempo, paradossalmente è anche quello che dicono al protagonista nel momento in cui chiede spiegazioni sul licenziamento: "non abbiamo altra scelta" , un mantra che vale per chi subisce e per chi invece mette in atto l'azione.
Il fatto che ogni personaggio, direttamente o indirettamente, pronunci quella frase rende evidente come la crisi del lavoro e del mercato abbia effetti sistemici: non solo su un individuo, ma su un intero tessuto sociale, dove la competizione diventa guerra, e la sopravvivenza un “diritto” da conquistare a qualsiasi prezzo. 
Il film non è quindi solo un dramma individuale, ma una radiografia crudele e impietosa  di una società che sacrifica l’umano sull’altare del profitto, dell’efficienza, del rendimento; relativamente a questo aspetto non può non tornare in mente la lotta di classe che Bong Joonho racconta in Parasite opera cui per qualche aspetto il film di Park sembra avvicinarsi.
Una delle caratteristiche più riuscite di No Other Choice è la miscela di humour nero, assurdo e violenza ,un cocktail che, nelle mani di Park, diventa un potente strumento di satira: il film inizia quasi come una commedia nera, con battute taglienti, situazioni surreali, un primo omicidio quasi “cartoonesco” nella sua tragicomica goffaggine. 
Ma quella risata si fa sempre più amara, e la commedia sfuma nella tragedia. Il passaggio non è solo di tono, ma di profondità: la brutalità e il grottesco lasciano il posto alla disperazione, all’alienazione, alla dissoluzione dei legami. È una transizione lenta ma inesorabile, che riflette il crollo dell’interiorità umana, assediata da un sistema che svuota di senso. 
L’opera può essere vista come un attacco frontale — seppur camuffato da thriller — a quel capitalismo contemporaneo di derivazione americana ( ben sottolineato nel primum movens della vicenda) che riduce gli esseri umani a “risorse”: intercambiabili, sacrificabili, sostituibili. Il protagonista non è un “cattivo” canonico: è un uomo normale, spinto dal panico, dalla paura, dalla necessità di sopravvivere. E la sua discesa morale è presentata come possibile “da chiunque”. Così, il film espone l’assurdità e la crudeltà di un sistema che trasforma la sopravvivenza in guerra fratricida nella quale si perde ogni minimo residuo di etica e di moralità che non sia la sopravvivenza bruta
Chi conosce il cinema di Park Chanwook — dalla sua fama consolidata con svariati lavori — riconoscerà in No Other Choice una sua cifra distintiva: l’attenzione ossessiva per l’inquadratura, la composizione, la messa in scena; ogni dettaglio visivo ,dalla scenografia alla fotografia, fino al suono e al montaggio , contribuisce a costruire un mondo che vive di contrasti forti: il già visto del quotidiano e il disturbante dell’imprevisto.

domenica 30 novembre 2025

Girls on Wire / 想飞的女孩 ( Vivian Qu / 文晏 , 2025 )

 



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Giudizio: 8/10

Con Girls on Wire che ha visto la luce alla ultima Berlinale, la regista cinese Vivian Qu firma il suo terzo film, confermando la coerenza di un percorso artistico che si è sempre mosso lungo una linea di confine tra realismo e introspezione, tra denuncia sociale e sguardo intimista. 
Dopo Trap Street (2013) e Angels Wear White (2017), Qu torna a raccontare le ferite invisibili della società cinese contemporanea attraverso gli occhi di giovani donne, costrette a vivere in un mondo che sembra negare loro ogni possibilità di scelta, ma capaci di costruire, nel silenzio e nella solidarietà, una forma autentica di resistenza.
Il titolo, Girls on Wire, è già di per sé un manifesto poetico: non solo un riferimento diretto ad una delle due protagoniste ma anche un’immagine sospesa, quasi metafisica, che rimanda alla condizione precaria e fragile delle protagoniste stesse, ma anche alla loro forza nel mantenere l’equilibrio nonostante tutto. Come funambole che camminano sul filo della vita, queste ragazze cercano di sopravvivere a un contesto familiare e sociale violento, privo di etica e compassione, trovando nel legame reciproco l’unica via per emergere dall’abisso.
La storia segue due giovani ragazze, cugine,  che vivono ai margini di una città cinese senza nome, schiacciate da una famiglia incapaci di proteggere, da adulti violenti e assenti e da istituzioni che chiudono gli occhi. Sebbene deteriorato dagli eventi occorsi negli anni il loro rapporto diventa l'unica ancora di una possibile salvezza per entrambe finite in giri e frequentazioni poco raccomandabili, un rifugio, una zona franca in cui poter respirare e, per la prima volta, sentirsi comprese.
Vivian Qu costruisce il racconto con una delicatezza straordinaria: non cerca l’enfasi emotiva, ma lascia che siano i silenzi, gli sguardi e i gesti minimi a parlare. La regista accompagna lo spettatore dentro la vita delle protagoniste senza spiegarla mai del tutto, attraverso una narrazione frammentata, ellittica, fatta di scene che sembrano rubate al reale.
Le due ragazze attraversano spazi chiusi, spesso squallidi (dormitori, case claustrofobiche, aule scolastiche )  dove la violenza non è necessariamente fisica, ma costante, insinuata nei comportamenti e nelle parole. 
In Girls on Wire torna il tema centrale della poetica di Vivian Qu: la violenza strutturale contro le donne e le giovani generazioni, e la possibilità di sfuggirle attraverso la solidarietà e la consapevolezza. Ma rispetto ad Angels Wear White, dove la denuncia era più esplicita, qui la regista compie un passo ulteriore: non mostra più la ferita, ma il modo in cui si può continuare a vivere con essa.
La famiglia, che nel cinema cinese tradizionale è un pilastro morale, diventa in Qu un luogo di oppressione e di colpa. Gli adulti non sono modelli, ma complici inconsapevoli , attraverso le loro azioni scellerate, di un sistema che perpetua la violenza. Tuttavia, la regista evita il moralismo e la retorica: la sua forza sta nel mostrare la realtà senza deformarla, lasciando che la verità emerga dai comportamenti, dalle omissioni, dai silenzi che separano i personaggi.




Il film parla quindi di un’educazione alla sopravvivenza, di un’infanzia rubata, ma anche della nascita di una consapevolezza. Le protagoniste trovano nel loro legame la possibilità di ridare senso alla parola “cura”, di creare un linguaggio comune fatto di gesti semplici quali una carezza, uno sguardo, un atto di fiducia. È una unione che va oltre il legame di sangue e  che diventa una forma di opposizione politica, un modo per reclamare umanità in un mondo che l’ha dimenticata.
Sul piano formale, Girls on Wire conferma la mano sicura e personale di Vivian Qu. La regista lavora con una messa in scena minimale ma profondamente espressiva, dove ogni scelta visiva ha un valore simbolico. La macchina da presa osserva, non giudica. I movimenti sono lenti, calibrati, quasi invisibili; la fotografia alterna tonalità fredde e spente a improvvisi bagliori di luce che segnano momenti di apertura emotiva.
Qu non cerca mai il pathos, ma un’intensità che nasce dall’attesa e dalla sospensione. L’uso del silenzio, così come la rarefazione dei dialoghi, diventa una forma di scrittura: il non detto è ciò che più pesa, il vuoto diventa luogo della verità. Il montaggio procede per frammenti, rifiutando la linearità classica in favore di una struttura che rispecchia la percezione confusa e interiore delle protagoniste.
Ciò che distingue la regista è la capacità di unire rigore formale e calore umano: il suo cinema non è mai freddo o cerebrale, ma profondamente empatico, ogni inquadratura è una presa di posizione morale, e al tempo stesso un atto di ascolto verso chi non ha voce.
Nel panorama del cinema cinese contemporaneo, Girls on Wire rappresenta un’opera di equilibrio e coraggio. Vivian Qu appartiene a quella generazione di registi che ha saputo coniugare l’osservazione sociale con un linguaggio poetico e personale, ma la sua prospettiva si distingue per la centralità assoluta dello sguardo femminile.
Mentre autori come Jia Zhangke o Lou Ye raccontano la Cina nella sua dimensione collettiva, politica e urbana, Qu sceglie il microcosmo, le vite minori, gli interstizi della quotidianità. È lì che si gioca la partita della dignità. La regista indaga il modo in cui la violenza domestica, la povertà affettiva, la mancanza di etica familiare si radicano nell’animo delle persone, fino a diventare destino. Ma lo fa con uno stile che sfugge al didascalismo, lasciando emergere la critica sociale come un sottotesto emotivo, non come un discorso imposto.

sabato 29 novembre 2025

Little Trouble Girls [aka La ragazza del coro] ( Urska Djukic , 2025 )

 



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Giudizio: 7.5/10

La giovane regista slovena Urška Đukić esordisce nel lungometraggio con Little Trouble Girls (La ragazza del coro, il titolo italiano) consegnando al pubblico un'opera prima che, pur mantenendo la freschezza e le imperfezioni tipiche del debutto, mostra una cifra autoriale netta e una sensibilità visiva e narrativa di straordinaria personalità. 
Il film si muove sul confine sottile , e per questo fertile , tra il ritratto psicologico e il racconto sociale, componendo un coming-of-age atipico dove la crescita non è solo passaggio dall'innocenza all'esperienza, ma lotta tra pulsioni individuali e dispositivo culturale-religioso che le reprime.
La vicenda segue la protagonista ,un'adolescente inserita in un contesto comunitario fortemente segnato dalla pratica religiosa e da una morale collettiva severa, mentre attraversa un anno cruciale: incontri, trasgressioni, amicizie, piccoli e grandi atti di disobbedienza, voci sussurrate che la circondano impregnandola di misticismo, che la spingono a interrogarsi su sé stessa, sul desiderio e sulla propria libertà. Il centro del racconto è una trasferta in Friuli del coro in cui Lucija, la protagonista, canta. La progressione narrativa evita l'arco lineare «inizio-crisi-risoluzione» canonico; Đukić predilige sequenze episodiche e momenti di forte messa a fuoco emotiva che accumulano tensione psicologica, fino a picchi di rottura che non sempre si risolvono in manifestazioni risolutive. È un racconto che somma frammenti , piccoli incidenti, gesti quotidiani, segreti sussurrati , e li trasforma in una geografia interiore.
Il cuore tematico del film è la collisione fra pulsioni adolescenziali quali la sessualità nascente, il bisogno di autonomia, la ricerca di identità , e un ambiente culturale/religioso che pretende conformità e repressione. 
Đukić non tratta la dimensione religiosa come un mero sfondo o come un nemico caricaturale: la ritrae come organismo complesso, fatto di affetti sinceri, riti rassicuranti e anche di regole che soffocano. Questo approccio evita facili demonizzazioni e permette di mostrare come il conflitto sia interno alla comunità e, soprattutto, alla protagonista stessa: la colpa, l'attrazione per il proibito, il desiderio di appartenenza.
Il film esplora inoltre il tema della complicità femminile e dell'amicizia femminile come spazio di emancipazione: le relazioni fra le giovani non sono solo rifugio, ma anche laboratorio di persone che si allenano alla libertà. Đukić mette in scena una micro-società di ragazze che sperimentano, tradiscono, sostengono e tradiscono ancora, quel fluire di affetti contraddittori che è il primo vero campo di prova per la formazione dell'individuo.



Questo non è il classico racconto di formazione: l'avanzamento verso la maturità non è un'unica rivelazione che pone fine all'incertezza, al contrario, Đukić opta per un percorso a spirale, segnato da ritorni, fallimenti, piccoli atti di saggezza che non garantiscono un futuro lineare. La maturazione è presentata come un processo frammentario, spesso doloroso, che lascia tracce ma non sempre risposte definitive. Questa scelta narrativa dirompente rispecchia l'idea che crescere sia spesso contraddittorio  e che la libertà, quando conquista spazio, può avere il volto della precarietà.
Sorprende la coerenza stilistica che Đukić mostra già nel suo primo film. La regia è attenta al corpo: primo piano su mani che tremano, inquadrature che seguono i movimenti imperfetti del corpo adolescente, piani medi che lasciano lo spazio per i gesti e per la loro ambiguità. 
La macchina da presa, quando serve, diventa lieve e quasi documentaria; altre volte si irrigidisce in composizioni statiche che sembrano misurare il peso della norma. Questa alternanza produce un effetto di straniamento controllato: lo spettatore sente sia la pulsione alla vita sia la gravità del contesto.
La fotografia privilegia una luce naturale, spesso filtrata, che conferisce alle sequenze un'aura di realismo poetico: colori tenui, tonalità pastello e, in certi momenti, scelte cromatiche più nette nei momenti di rottura, accompagnano il tono emotivo. La regista cura il suono in modo minimale ma efficace: i rumori ambientali (canti, passi, il fruscio di tessuti religiosi) diventano parte della partitura emotiva, mentre la musica si inserisce raramente, per sottolineare senza sovrapporre.

sabato 22 novembre 2025

Armand ( Halfdan Ullmann Tøndel , 2024 )

 



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Giudizio: 7.5 /10

Con Armand, presentato alla Settimana della Critica del Festival di Cannes e vincitore del Grand Prix, il giovane regista norvegese Halfdan Ullmann Tøndel firma un esordio sorprendente per maturità stilistica, rigore concettuale e capacità di cesellare una tensione emotiva che rimane sospesa come una corda tesa tra i personaggi. 
Non si tratta soltanto del debutto di un promettente autore scandinavo, ma dell’ingresso nel cinema di un cineasta che porta sulle spalle un’eredità pesantissima: quella dei suoi nonni, Ingmar Bergman e Liv Ullmann, figure centrali del cinema europeo.
Il paragone è inevitabile , e in certi momenti, a dire il vero, perfino cercato , ma ciò che sorprende è come Tøndel non sembri schiacciato da questa genealogia: al contrario, la usa come punto di partenza per costruire un linguaggio più sfumato, più intimo, meno metafisico ma altrettanto penetrante.
La trama del film è, in apparenza, essenziale: un presunto episodio di violenza scolastica tra due bambini di otto anni, Armand e Jon, avvenuto nella scuola che frequentano. Non sappiamo cosa sia accaduto davvero e, soprattutto, non lo sapremo mai con certezza.
Il film si apre quando i genitori vengono convocati per chiarire l’accaduto: la mamma di Armand è vedova da poco e la mamma di Jon è la sorella del padre di Armand che prova una certa avversione per la cognata che ritiene responsabile in qualche modo della morte del fratello: è la scintilla che dà inizio a un lungo pomeriggio di sospetti, accuse, difese a oltranza, risentimenti mai risolti.
Tøndel compie una scelta radicale: non seguire i bambini, che anzi non sono praticamente mai presentati nel film, ma gli adulti che li rappresentano, li proteggono, li sovraccaricano delle proprie aspettative. Il conflitto non riguarda affatto la violenza infantile, ma il modo in cui la colpa, anche se solo ipotizzata, si insinua negli ingranaggi sociali e familiari, deformandoli.
Il presunto litigio tra i ragazzini è allora un pretesto narrativo, ma soprattutto uno specchio deformante, attraverso cui emerge l’incapacità degli adulti di affrontare le proprie fragilità affettive e relazionali.
Il tema centrale del film è la colpa, da sempre una delle tematiche più pregne del cinema nordico-scandinavo, non la colpa come atto commesso, ma la colpa come proiezione, come materia contagiosa, come sentimento che circola negli sguardi e nelle omissioni.
Armand è accusato, forse ingiustamente, ma l’essenza del racconto non risiede nella sua innocenza o nella sua responsabilità: il punto è rivelare come gli adulti reagiscono di fronte alla possibilità che il proprio figlio abbia causato un danno.



Il film mette a fuoco alcune dinamiche fondamentali: i genitori temono che un’etichetta si attacchi alla famiglia, che un episodio banale possa definire il carattere di un bambino. Tøndel mostra così la fragilità dell’identità borghese nordica, sempre in equilibrio tra ordine apparente e caos interno; i personaggi riversano sui figli ansie che appartengono ai loro rapporti di coppia: vecchie gelosie, omissioni, rancori che trovano nel caso Armand-Jon un’occasione perfetta per riemergere; nelle conversazioni, negli scambi di accuse, nel tentativo di controllare la narrazione, la colpa diventa una leva.
La domanda “Chi ha iniziato?” smette presto di riguardare i bambini: diventa “Chi è la vera vittima qui?”, “Chi ha più da perdere?”, “Chi ha il diritto di raccontare la propria versione?”.
Il cuore del film è l’osservazione dei rapporti interpersonali tra adulti: non solo tra le due coppie protagoniste, ma anche tra genitori e istituzioni scolastiche, tra madri e padri, tra chi parla troppo e chi tace troppo.
Tøndel costruisce una drammaturgia da camera, bergmaniana nella sostanza ma contemporanea nei dettagli:sguardi che cercano di dominare l’altro,frasi trattenute che poi esplodono in monologhi,sorrisi di circostanza che diventano smorfie,lunghe pause in cui il silenzio dice tutto ciò che le parole evitano.
La tensione cresce non per eventi esterni, ma per accumulo emotivo; ogni dialogo è una scena di combattimento in cui la posta in gioco aumenta di minuto in minuto.
A livello stilistico, Tøndel si affida a un impianto che ricorda le coordinate del cinema nordico contemporaneo – linearità, ambienti curati, fotografia naturale – ma introduce elementi che “sporcano” il realismo.
Gli ambienti scolastici, ripresi come luoghi neutri, diventano presto claustrofobici: corridoi asettici, uffici spogli, aule dagli echi metallici. È come se l’edificio stesso partecipasse al conflitto, molti primi piani, spesso stretti e mossi, registrano micro-espressioni, tremolii, tic nervosi: un’eredità diretta del cinema di Liv Ullmann regista, ma anche del Bergman più tardo.Il film procede per quadri, per lunghi confronti interrotti da attese e sospensioni. La cornice temporale è ristretta, ma la densità emotiva è altissima.

venerdì 21 novembre 2025

Le verità ( Kore'eda Hirokazu , 2019 )

 



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Giudizio: 7.5/10

Kore-eda Hirokazu arriva per la prima volta in Europa con Le verità, film che conserva il garbo riflessivo del suo cinema ma lo rotea volutamente verso un palcoscenico occidentale: una grande diva del cinema (Catherine Deneuve) nella sua villa parigina, una figlia sceneggiatrice (Juliette Binoche) sposata con un attore americano tornata dopo anni, e una serie di visite e confessioni che smuovono memorie, omissioni e menzogne. 
Quel che Kore-eda mette in scena non è tanto un “giallo” della verità oggettiva quanto una partitura delicata e stratificata sul rapporto tra finzione e vita, su come il mestiere dell’attore , e l’atto di raccontare , possano rimodellare l’identità, i valori e perfino la percezione della verità stessa.
Al cuore del film c’è un’interrogarsi sottile e costante: fino a che punto l’attore, nel dar voce a personaggi e memorie, finisce per imporre una propria versione del reale sulle persone che lo circondano? Kore-eda sviluppa questo quesito attraverso la figura della diva , una donna la cui fama è costruita su ruoli che, per il pubblico e talvolta anche per lei, finiscono per sovrapporsi alla persona. L’attore diventa dunque un agente di verità (o di falsità): la sua interpretazione può rivelare, occultare, tradire. È la recitazione che porta a galla ricordi sopiti, che piega i fatti in funzione di un’immagine più vendibile o più sopportabile.
La protagonista (Fabienne nella pellicola) incarna la tensione fra persona pubblica e intimità privata: il suo passato, il suo essere madre e donna di spettacolo, è un “testo” continuamente riletto e reinterpretato. 
La figlia, che si trova a raccontare e ricostruire eventi, offre la voce del racconto che cerca la verità , ma la verità emerge sempre filtrata, mediata da memoria, risentimento, narrazione personale. Kore-eda ci ricorda che la verità non è solo un dato fattuale, ma una costruzione fragile e plurale.
L’azione è largamente confinata nella villa-residenza della protagonista, scelta registica che trasforma il film in una specie di racconto da camera. Questo spazio chiuso funziona da lente: i dialoghi, gli sguardi, i piccoli gesti guadagnano peso; i conflitti familiari e professionali si concentrano e si intensificano. 
Kore-eda usa l'ambiente domestico come set drammaturgico , la quotidianità diventa palcoscenico e la casa stessa un teatro delle illusioni. La villa, con i suoi corridoi, le stanze affrescate, gli specchi, è luogo di prova: qui si mettono in scena memorie, si fanno prove di verità, si recitano giustificazioni.
Questa economia di spazio ricorda i migliori “film di salotto” europei  e allo stesso tempo conserva l’attenzione ai dettagli relazionali tipica del regista giapponese. Lo scontro tra intimità e spettacolarità si gioca in pochi ambienti, ma ogni inquadratura è calibrata per far emergere la rete di affetti ambivalenti, l’imbarazzo e la complicità che legano madre e figlia.
Kore-eda costruisce la narrazione per strati: conversazioni che sembrano banali diventano rivelatrici; flash di memoria si insinuano come piccoli terremoti emotivi. Non c’è un’unica rivelazione risolutiva ma una progressiva sedimentazione di punti di vista. Questa scelta strutturale sottolinea la natura multiforme della verità: non la cerchiamo come un enigma da risolvere, ma la scopriamo come risultato di ascolto, confronto, spesso di fraintendimenti che però dicono qualcosa di autentico su chi parla.



La sceneggiatura privilegia i dialoghi misurati, gli scambi a volte ironici, che consentono agli attori di scavare nelle sfumature; il ritmo è lento ma attentamente modulato: Kore-eda concede tempo alla parola, ai silenzi, ai ritorni su un episodio che assume nuovi significati mano a mano che emergono altre testimonianze. È una struttura che riflette il suo cinema precedente (la sua inclinazione per il realismo riflessivo e le famiglie allargate), ma qui la posta in gioco è più meta-cinematografica: come si costruisce una narrazione, quali interessi la modellano.
Anche girando in Europa, Kore-eda non rinuncia alla propria cifra: la macchina da presa è discreta, spesso statica, attenta ai volti, ai piccoli movimenti che tradiscono emozioni. Tuttavia, lavorare con attrici del calibro di Deneuve e Binoche e inserirsi in un contesto francese introduce nel film una nuova tessitura stilistica , un certo gusto per la mise-en-scène più teatrale, per l’eleganza degli scorci domestici e per la parola come performance. Il risultato è un equilibrio tra la delicatezza minimalista che conosciamo e un registro stilistico più esplicito, più “francese-parigino” che a tratti ricorda in maniera decisa Francois Ozon, che non stride ma arricchisce l’opera.
Questa operazione cross-culturale ha un altro esito importante: Kore-eda dimostra una capacità di adattamento rara , accoglie il linguaggio e la teatralità occidentali senza subirle né snaturarsi. Il film funziona proprio perché riesce a mediare due tradizioni: la sensibilità intimista giapponese e la cultura del grande attore europeo che è al centro del racconto.
Le interpretazioni sono il vero cuore pulsante del film. La diva anziana riesce a incarnare il paradosso tra magnetismo pubblico e vulnerabilità privata; la figlia, con erranze emotive e sarcasmo, rappresenta la mediazione fra affetto e risentimento. Gli incontri con altri personaggi (partner, amici, colleghi) agiscono come specchi che riflettono versioni diverse di uno stesso fatto, costringendo lo spettatore a navigare fra prospettive discordanti.
Kore-eda dirige gli attori con mano lieve: sa quando chiedere il grande gesto e quando lasciare che un minuto sguardo dica tutto. Il tema del “ruolo che condiziona la vita” diventa evidente quando la carriera e le scelte dell’attrice si rivelano come elementi che hanno plasmato , e magari deformato , le relazioni familiari.
Una delle questioni morali più pregnanti del film è la responsabilità connessa al raccontare: chi ha il diritto di narrare la vita dell’altro? Quali omissioni sono giustificabili? 
Kore-eda ci mette davanti a dilemmi etici: l’arte libera, ma può ferire; la memoria sopravvive, ma si corrompe. Il regista invita a considerare la verità come qualcosa che ha conseguenze pratiche sulle vite delle persone: rivelare o tacere non è un esercizio puramente intellettuale, ma una scelta che incide sui rapporti, sulla dignità, sul futuro.

domenica 9 novembre 2025

Eddington ( Ari Aster , 2025 )

 



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Giudizio: 6.5/10

Con Eddington, Ari Aster abbandona ,o quanto meno sospende, la modalità tipica dell’horror puro, quella di Hereditary  Midsommar , per imboccare la via di un western contemporaneo (neo-western) fortemente politicizzato, ambientato nel pieno della pandemia di Covid-19 e delle agitazioni sociali degli Stati Uniti del 2020.
La pellicola mette in scena una cittadina immaginaria del Nuovo Messico, Eddington appunto, dove lo scontro tra lo sceriffo Joe Cross (Joaquin Phoenix) e il sindaco Ted García (PedroPascal) s’innesca in un clima di paranoia, protesta, complottismo, mascherine, teorie del virus, lotta razziale e disorientamento politico, insomma un trumpismo montante che avrebbe poi portato inevitabilmente alla pantomima dei MAGA.
Da questo incipit, Aster intesse un discorso ambizioso: non più solo la famiglia come nucleo di orrore interiore, non più solo la cerimonia di rito come metafora del trauma, ma un intero Paese in dissoluzione , o meglio, in perenne combustione nel quale vengono a galla in maniera esplosiva situazioni e latenti contraddizioni che portano a rivalutare la vera natura della società yankee. Il tutto, va detto, avviene ben prima della ascesa di Trump, ma ciò che Aster racconta è quanto di più profetico ( o semplicemente ovvio?) riguardo la deriva intrapresa dal paese in questi ultimi anni.
Il film utilizza la pandemia come cornice di tensione: il momento in cui le regole sanitarie, le restrizioni e la paura collettiva spalancano spazi di delirio, isolamento e conflitto. In questo senso, la mascherina, il rifiuto della mascherina, l’asmatico-sceriffo che non la vuole indossare mostrano come i singoli simboli diventano totem ideologici.
Aster costruisce così un discorso sulla fragilità del tessuto sociale: quando una calamità (sanitaria, ma presto anche politica) colpisce, la comunità non reagisce in modo compatto ma esplode in una guerra di tutti contro tutti , una resa dei conti tra angosce individuali e paure collettive.
La candidatura dello sceriffo Joe Cross , che diventa simbolo di un certo tipo di America “ritorno alle origini”, “radici radical-repubblicane”, intolleranza , assume le tinte del populismo. Il sindaco García, ispanico, diventa l’“altro”, il bersaglio del rancore, del sospetto, della rivendicazione etnica e razziale. 
In questo  scontro politico-sociale che sembra scorrere sempre sul filo del rasoio che fa da confine tra il populismo becero e la violenza silente, Aster pare voler mettere in scena la summa,  se non la parodia, di tutte le follie americane che si sono accumulate dal 2020 in avanti: pandemia , protesta per la morte di GeorgeFloyd , elezioni presidenziali , cultura delle armi , teorie del complotto , trumpismo etc.
In tal modo il film non è solo un western, ma una satira amara dell’“America spaccata”, che utilizza il genere per smascherare macro-temi: la paura, il tribalismo, l’impossibilità di mediazione, la perdita di senso civico.



Come nelle opere precedenti di Aster, la violenza ,spesso disturbante e grottesca , non è solo mezzo spettacolare ma corpo emotivo del racconto. In Eddington essa assume dimensioni comunitarie: non è solo trauma individuale, è esplosione collettiva. 
Si assiste alla disgregazione di una cittadina che diventa microcosmo di un Paese in crisi. Le teorie del complotto, i culti pseudo-religiosi, le armi, la setta guidata da Vernon Jefferson Peak (interpretato da Austin Butler) si sovrappongono ai conflitti razziali e politici, creando un magma in cui la coesione sociale va in pezzi. 
Accanto alla dimensione pubblica e politica, Aster intreccia temi classici del suo cinema: la colpa, il trauma, la memoria che ritorna. La moglie del protagonista, Louise (EmmaStone), fragile, vittima di abusi e sedotta da una setta, rappresenta la presenza ingombrante del passato personale che si inscrive nell’epoca del caos collettivo. L'individuo non è estraneo alla tempesta esterna: partecipa, è travolto, e a volte la provoca.
Nel panorama della sua filmografia, Eddington rappresenta un passo differente; nei precedenti lavori — Hereditary e Midsommar — Aster operava all’interno dell’horror rituale, con ambienti isolati, cerimonie ataviche, orrori introspettivi. In Beau is Afraid  ha già tentato un ampliamento verso la satira, la commedia nera e la disperazione esistenziale; ora, con Eddington, passa a un genere più “mainstream”  come il western ma lo utilizza in modo ironico, destabilizzante, sottilmente politico.
L’impianto narrativo è dunque più ampio, più corale, meno “microcosmico”. L’azione si svolge in un ambiente urbano-frontiera (piccola città del Nuovo Messico), piuttosto che in una comunità chiusa o in un villaggio isolato. Il tempo è storico (maggio 2020), non atemporale. L’orizzonte è nazionale, non solo familiare o mitico. Questo cambio di scala comporta opportunità — nuove problematiche, un racconto più ambizioso — ma anche rischi: il dover gestire molti personaggi, molti filoni tematici, molte caricature sociali.
Dal punto di vista visivo, la scelta del formato widescreen  e l’ambientazione nel deserto evocano il western classico, ma l’estetica si carica di surreale e grottesco, come da cifra Asteriana. 
Sicuramente la volontà di Aster di affrontare un’America contemporanea in crisi ­— complottismo, pandemia, polarizzazione politica, proteste razziali — è coraggiosa e rilevante e Eddington si configura come una sorta di mappa mentale, visiva e narrativa, di quegli anni tumultuosi , un autentico  sguardo lucido sulla decomposizione americana, come è stato definito ed interpretato da molte parti, e rimane tirando le somme sul giudizio critico del film l’aspetto certamente più valido e meglio riuscito della pellicola cui va ad affiancarsi la  performance attoriale : Phoenix, Pascal e Stone contribuiscono a dare corpo a personaggi riuscendo a non oltrepassare quella sottile linea che ne avrebbe fatto delle semplici e banali caricature.
Anche  la contaminazione di generi funziona nei momenti in cui Aster gestisce bene ritmo, tensione e accumulo, molto meno quando con l’evento deflagrante che fa esplodere il tessuto filmico fin lì costruito ci si ritrova nella violenza splatterosa che si muove tra i fratelli Coen e Tarantino senza però le sfumature ironiche e surreali di quest’ultimi.
Viceversa l’opera di Ari Aster presenta  anche numerosi aspetti che convincono poco o nulla, in primis la sovrabbondanza di elementi tematici che vanno a creare un corpo narrativo difficile da gestire che porta inevitabilmente alla dispersione , il tutto esacerbato da un repentino cambiamento di genere e di atmosfere, come già detto, che fa scivolare il film in un incedere caotico che sembra sfuggire di mano più di una volta al regista, fino al finale che se può apparire potente è invece piuttosto debole di fronte alla messe di tematiche gettate in campo dal regista al punto che il peso della riflessione politica e sociale rischia di diventare didascalico: il messaggio è forte, ma forse poco mediato e lascia qualche interrogativo su quale sia il reale significato 
Insomma è proprio nel terzo atto e nel finale che Eddington mostra la sua ambizione più rischiosa  e allo stesso tempo il suo punto più debole. 

sabato 8 novembre 2025

Alemania ( Maria Zanetti , 2023 )

 



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Giudizio: 7.5/10

Alemania  della regista argentina María Zanetti è un esordio che si impone per delicatezza e misura: la storia di Lola, una sedicenne che sogna un semestre di studi in Germania mentre la sua famiglia si trova a fare i conti con i gravi problemi psichici della sorella maggiore, si sviluppa come un racconto di formazione intimista, misurato e spesso riservato. La regia di Zanetti privilegia i dettagli del quotidiano e il lento montare delle tensioni familiari piuttosto che il colpo di scena, costruendo un piccolo universo di frustrazioni, silenzi e desideri di fuga. 
Quello che colpisce subito è la natura autobiografica - dichiarata e indagata dalla regista stessa - che informa il film di un tono sempre personale: non è la cronaca sensazionalistica dell’evento patologico, ma la scansione soggettiva di chi cresce in una casa dove la cura di un familiare assorbe tempo, risorse e affetti. 
L’ambientazione negli anni Novanta e la scelta di un registro quasi “domestico” contribuiscono a rendere palpabili gli odori e i ritmi di una provincia argentina di classe media, che richiama ambientazioni che sembrano derivare direttamente da certa provincia italiana, fatta di sale d’attesa, di discussioni alla cucina e di promesse di un’Europa libera e distante. 
Strutturalmente Alemania si inscrive pienamente nel modello del coming-of-age, ma lo fa per sottrazione. La narrazione non punta su grandi avvenimenti esterni, bensì su piccole scelte che, messe insieme, disegnano il passaggio dall’adolescenza a una prima forma di autonomia. 
Zanetti concentra l’azione in un arco di tempo ristretto: come spesso accade nei film di formazione davvero efficaci, è l’intensità delle scene quotidiane (una lite, una partenza sospesa, un esame da recuperare) a costituire la progressione psicologica della protagonista. 



Il viaggio programmato — e poi messo in discussione — verso la Germania diventa così metafora: non solo fuga fisica, ma atto simbolico di una volontà di separazione che segna la soglia tra dipendenza e autonomia. L’orizzonte tedesco è, nel film, contemporaneamente promessa di modernità e simbolo di una possibilità di riorientamento personale.
Il tema del disagio psichico è trattato con pudore e responsabilità: Julieta (Miranda de la Serna) non è mai spettacolarizzata: la sua presenza è vissuta principalmente attraverso l’impatto che genera sugli altri personaggi — la fatica dei genitori, la rabbia e il senso di invisibilità di Lola — e non come un oggetto di curiosità. Questa scelta etica di campo evita il sensazionalismo e rinuncia a soluzioni facili: la malattia agisce come una forza economica ed emotiva che ridefinisce i ruoli in famiglia, fa vacillare progetti e produce una doppia frattura — dentro la famiglia e dentro il soggetto adolescente che vuole costruirsi un sé altrove. 
La macchina da presa, spesso vicina e discreta, privilegia i piani medi e i silenzi, facendo sentire il peso della quotidianità e la stanchezza che pervade il nucleo familiare; gli approcci sonori e la misura della colonna musicale accompagnano questi momenti senza manipolarli. 
Le interpretazioni sono il cuore sensibile dell’opera; Maite Aguilar costruisce una Lola non urlata ma intensa: il suo lavoro attoriale gioca sulla sottrazione, sulla modulazione dei piccoli gesti — lo sguardo che si sposta, un’esitazione, un sorriso che non arriva fino in fondo. Miranda de la Serna offre una presenza complessa e sfaccettata come Julieta; il film trova nella relazione fra le due sorelle il centro emotivo più riuscito. Maria Ucedo, nei panni della madre, rende credibile la stanchezza e il carico di cura senza mai cadere nella caricatura. 
Complessivamente, la recitazione tende al verismo e trova nella direzione di Zanetti una linea coerente: misurata, rispettosa, attenta ai tempi della scena. 

domenica 2 novembre 2025

Toxic [aka Akiplesa] ( Saule Bliuvaite , 2024 )

 



IMDB

Giudizio: 7.5/10

La regista lituana Saute Bliuvaite firma con Toxic (titolo originale Akiplesa), opera prima nei lungometraggi, un racconto di formazione atipico, molto al limite che rifiuta il consolatorio e il già visto: è un film che osserva il passaggio all’età adulta come un terreno minato, uno spazio di scelte fragili e di catene relazionali che si radicano nell’assenza. 
La sua forza principale sta proprio nella volontà di mostrare, senza moralismi o soluzioni facili, le derive pericolose che possono assumere percorsi di crescita lasciati al caso o alla cattiva compagnia.
Senza svelare dettagli che rovinerebbero la visione, Toxic segue la formazione di Maria una giovane tredicenne  immersa in un contesto che non offre punti di riferimento stabili: la famiglia è poco presente, la mamma l’ha affidata alla anziana nonna , o inefficace, le istituzioni appaiono tiepide e la rete di pari, pur calda e seducente, si rivela spesso tossica, la ragazza inoltre soffre di una zoppia esito di una malattia infantile che la usa essere bersaglio dei dileggi delle compagne di scuola. Nel cercare una rapida emancipazione Marija si troverà a dovere far fronte a situazioni più grandi di lei , spesso al limite con azioni pericolosissime. 
Il film scandaglia i piccoli gesti, le scelte quotidiane e i momenti di rottura che compongono il passo dall’adolescenza alla vita adulta,  e mostra come, in assenza di sostegno, quei passaggi possano degenerare in meccanismi autodistruttivi.
Bliuvaite spinge il genere verso territori in cui la formazione non è avventura liberatoria ma campo di battaglia. Qui la maturazione non coincide con una progressiva emancipazione ottimista: è ambigua, spesso involutiva. L’originalità del film sta proprio nello smontare il mito della crescita come miglioramento lineare; Toxic preferisce mostrarne aspetti regressivi, ripetuti e contaminanti, più che un percorso di formazione sembra una discesa verso luoghi oscuri e carichi di pericolo.
La famiglia non è solo sfondo, ma una forza negativa per omissione: la mancanza di cura e di guida non è raccontata come semplice dolore privato, ma come elemento strutturante che lascia vuoti pronti a essere occupati da modelli tossici. Bliuvaite mostra quanto l’assenza strutturata produca bisogno  e come quel bisogno venga spesso soddisfatto da relazioni che offrono affetto condizionato e manipolazione.



Il film tratteggia le micro-gerarchie dei coetanei con grande acutezza: l’appartenenza non è mai neutra, è valuta emotiva che può comprare protezione ma anche vendere identità. Qui la «toxicity» è contagio affettivo: atteggiamenti, linguaggi, piccoli rituali che, ripetuti, modellano scelte e limitano la libertà. Bliuvaite si concentra sui gesti ripetuti più che sugli eventi straordinari — ed è proprio nel quotidiano che il film individua il veleno più efficace.
A differenza di molte parabole morali, Toxic non assegna colpe nette: chi soccombe al contesto non è solo vittima né del tutto responsabile. 
La regista mantiene una distanza empatica e insieme lucida: osserva come persone ben intenzionate possano agire male, e come le intenzioni stesse si trasformino in giustificazioni. È una visione psicologicamente ricca, disposta a tollerare contraddizioni etiche senza cercare facile redenzione anche se il finale tutto sommato lascia intravedere una via d’uscita, che è prima di tutto filosofica e sociologica: lasciamo che i ragazzini facciano i ragazzini e non mettiamogli sulle spalle pesi che non sono in grado di sopportare e che spesso li portano alla rovina.
Bliuvaite predilige una progressione a piccoli blocchi: frammenti di vita che, accumulandosi, producono il senso di deriva. L’editing è spesso asciutto,  suggerendo piuttosto che spiegare con dialoghi espliciti. Questo ritmo lento e insistente crea una tensione costante: lo spettatore avverte l’imminenza della crisi prima ancora che si manifesti.
La regia utilizza la luce e l’inquadratura per dare corpo allo stato interiore dei personaggi. Interni freddi o scarsamente illuminati diventano spazi di isolamento; i campi lunghi, invece, restituiscono la piccolezza dell’individuo in ambienti che paiono indifferenti. La macchina da presa è spesso vicina, quasi invasiva, quando la regista vuole mostrare la pressione sociale; si allontana invece per segnare il senso di smarrimento e abbandono.

sabato 25 ottobre 2025

April ( Dea Kulumbegashvili , 2024 )

 



IMDB

Giudizio: 8/10

April di Dea Kulumbegashvili è un secondo lungometraggio che conferma, con una nettezza quasi spietata, la forza di una regista già pienamente formata: un cinema di inquadrature-architetture, di silenzi carichi e di fuori campo che pesano come colpe collettive. 
Presentato in Concorso a Venezia 81, il film ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria cui ha fatto seguito una notevole scia di altri riconoscimenti: una serie di premi che fotografano bene la particolarità di un’opera radicale ma lucidissima, capace di unire forma rigorosa e urgenza etica.
La protagonista è Nina (una intensissima Ia Sukhitashvili), ginecologa in una provincia georgiana. Un neonato muore dopo un parto apparentemente di routine: da quel momento la donna finisce sotto indagine, mentre in paese circola la voce — più o meno sussurrata — che Nina pratichi aborti clandestini. Il racconto non procede per colpi di scena ma per pressioni: indagini, domande insinuanti, corridoi d’ospedale, cucine domestiche dove la medicina diventa gesto di sopravvivenza.
Kulumbegashvili inserisce questa storia in un contesto che non ha bisogno di proclami: in Georgia l’aborto è “tecnicamente” legale entro certi limiti, ma una cultura del silenzio e dello stigma lo rende spesso inaccessibile, spingendo molte donne verso la clandestinità. È la regista stessa a parlarne apertamente, e il film ne restituisce la tensione quotidiana senza trattati didascalici.
Lo stile, già ammirato in Beginning, qui si fa ancora più ascetico e sensoriale: campi fissi, lunghi piani, dialoghi ridotti al necessario, una regia che “trattiene” più che mostrare, lasciando agli spazi il compito di raccontare la paura e l’isolamento. È un cinema che instilla inquietudine in ogni fotogramma, come hanno notato molte letture internazionali: non spettacolarizza, ascolta.
Una delle scene cardine dell’opera    un aborto domestico — è girata in tempo reale e senza elisioni, con una compostezza quasi documentaria che rifiuta la pornografia del dolore: lo sguardo resta fisso, i suoni (respiri, fruscii, piccole frasi) compongono la colonna emotiva. Non c’è catarsi: c’è la responsabilità di chi guarda.
Il fuori campo è la vera arma della regista: dietro le porte dell’ospedale, nelle stanze d’attesa, nei cortili serali si addensa la comunità — i mormorii, i giudizi, la misoginia ordinaria che si traduce in protocolli e verbali. È cinema che crede alla potenza del non visto, alla possibilità che un’inquadratura ferma contenga un mondo di forze invisibili: istituzioni, religione, morale, paura. La fotografia di Arseni Khachaturan, su 35mm, accentua la matericità degli spazi, la grana che sembra scorticare i volti e far affiorare la fatica del vivere.
A incrinare il realismo, facendo quasi approdare al surrealismo, interviene, qua e là, un’immagine perturbante: una figura senza volto, cascante, quasi una creatura che attraversa il film come simulacro della paura (o del senso di colpa) che la comunità proietta sul corpo femminile;  un gesto che produce sconcerto e disorientamento, ma , strano a dirsi, sembra quasi coerente col racconto e con l’atmosfera.
Nina non è martire né santa: è una professionista competente, testarda, stremata da un lavoro che la espone e la isola. Il rapporto con l’ex compagno David, coinvolto nell’indagine, e con il primario serve alla regista per mappare un ecosistema maschile capace di compassione a ore e di giudizio a tempo pieno. Sukhitashvili costruisce una presenza scavata e opaca: i suoi silenzi non sono retorici, sono strategie di sopravvivenza.



La forza di April è nell’etica dello sguardo: non esibisce, accompagna. Nel parto iniziale, l’assenza di tagli ci costringe a condividere il tempo dell’evento; nell’aborto in cucina, la macchina da presa rifiuta la morbosità e si affida all’ascolto
È un cinema che non spiega ma espone, che rifiuta slogan e preferisce mettere il pubblico alla prova. In questo senso April è politico senza diventare pamphlet: fa vedere cosa accade quando il diritto (o la sua apparenza) si scontra con il costume, e quando la cura medica viene criminalizzata dalla paura.
Come in Beginning, la terra — cortili, strade, cucine, corsie — non è sfondo ma personaggio: la Georgia non è mai cartolina, è ecosistema morale e materiale. Kulumbegashvili parla del proprio Paese senza sconti né esotismi, e proprio per questo April parla a tutti. È un film che trova risonanza nel dibattito globale su corpi, diritti, bioetica, ma che resta attaccato ai microgesti di una donna che continua a fare il suo lavoro, nonostante tutto.
La produzione internazionale (tra gli altri, Frenesy di Luca Guadagnino) non addomestica la voce dell’autrice, semmai la amplifica, garantendo un apparato tecnico che rimane discreto e funzionale : Kulumbegashvili affida la drammaturgia soprattutto a silenzio e rumori, in coerenza con un cinema che crede nel potere acustico degli spazi.
April è un’opera esigente e necessaria: non cerca l’adesione emotiva facile né lo scandalo, ma la verità del processo — la pressione sociale, la burocrazia, il pregiudizio che si sedimenta nei gesti. Con il suo secondo film, Kulumbegashvili consolida una voce personale: georgiana fino al midollo e, proprio per questo, universale. Il Premio Speciale della Giuria a Venezia non premia solo un tema “forte”, premia un’idea di cinema come responsabilità: guardare, farci guardare, e resistere.
Nel 2020 con Beginning, Dea Kulumbegashvili aveva già attirato l’attenzione internazionale con un’opera dirompente: la storia di una donna legata a una comunità religiosa di Testimoni di Geova, costretta in una realtà soffocante e intrappolata in un ciclo di violenza e sottomissione. Quel film colpiva per l’uso radicale dei piani fissi e per un’estetica quasi glaciale, capace di trasmettere la rigidità di un mondo oppressivo.
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