lunedì 24 marzo 2014

Tokyo Park ( Aoyama Shinji , 2011 )

Giudizio: 6/10

Al Festival di Locarno del 2011 inventarono appositamente un riconoscimento speciale per il film e l'opera omnia del suo autore, stabile frequentatore delle kermesse cinematografiche europee che contano; Tokyo Park di Aoyama Shinji non è però certo la migliore opera del regista nipponico, tutt'altro; non che il film non sia valido sotto certi aspetti, in primis la accurata regia, ma nel suo complesso appare come qualcosa che si avvicina tremendamente al classico guazzabuglio.
C'è qualcosa infatti nella pellicola che cresce e si sgonfia in continuazione seguendo un ritmo pacato e che troppo spesso fa approdare la storia su lidi manieristici.
Cosa rimane alla fine della visione di Tokyo Park ? L'impressione di avere assistito ad una dissertazione, appunto troppo di maniera, sull'amore e sulle sue forme relazionali che parte da un personaggio centrale, fin troppo centrale a dire il vero, il giovane Koji, fotografo per passione, barista di professione, che armato con le sue fotocamere un po' vintage (ma c'è un perchè) gira per i parchi di Tokyo a riprendere con fare vouyeristico scene di famiglia previa autorizzazione naturalmente ( e qui le possibili citazioni si sprecano).

Un giorno riceve una proposta da un dentista che lo scova nel  parco intento a fotografare furtivamente una giovane donna con la sua bambina; l'uomo gli chiede di fotografare, dietro lauto pagamento, la donna nelle sue lunghe passeggiate giornaliere nei parchi della città.
Questo curioso e misterioso evento sembra scatenare nel giovane una strana inquietudine che sfiora l'ossessione: la sua vita si svolge tra il bar e la casa che condivide col fantasma di un suo amico morto da poco, i suoi rapporti sono pochi e sfuggenti, con il proprietario del bar, con la fidanzata dell'amico morto che ancora non si rassegna e con la sorellastra; tutto sembra ruotare intorno alla macchina fotografica avendo ereditato la passione dalla madre morta, sembra quasi il suo modo di dare forma ad un suo universo.
Ad un certo punto tutto cambia: Koji capisce, finalmente verrebbe da dire, che la sorellastra lo ama follemente da anni, la ragazza dell'amico, dietro la sua follia cinefila per i film di zombi, nasconde una malcelata passione per lui ,quasi un transfert, il dentista pedina tramite lui la moglie; da qui in poi la storia si contorce , senza sviluppare molto, su discussioni sull'amore e le sue variegate forme, su fugaci baci e abbracci semincestuosi, su dichiarazioni di eterna fratellanza e su inspiegabili poteri risolutivi di Koji riguardo ai problemi di coppia.
Incomunicabilità e amore sembrano i fili che tengono insieme la storia che però spesso si struttura in situazioni quasi surreali con soluzioni lampo di travagli che appaiono francamente poco comprensibili; tutto il racconto insomma regredisce dopo che all'inizio le premesse poste facevano immaginare altri sviluppi.
Aoyama, che si ispira ad un testo di Yukiya Shoji dal medesimo titolo del film e che firma pure la colonna sonora jazz onnipresente e ben poco discreta, in stile Woody Allen vintage, mostra la sua capacità alla regia e regala, aspetto tra i più apprezzabili del film, una immagine di Tokyo ecologica, lontana dal caos e dalla frenesia, quasi tutta contenuta negli spazi verdi dei parchi; alcuni dei personaggi, in primis Miyu, la fidanzata dell'amico morto , addirittura strepitosa, nella sua eccentricità cinefila e il proprietario del bar, gay, ma che rimane fulminato nella sua vita dalla proposta di matrimonio di una donna , sono ben costruiti e danno vigore ad un film dove comunque la firma del regista, seppure un po' smussata si intravede chiaramente.


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