The Great Passage , film scelto per rappresentare il Giappone agli Oscar del 2014, è diretto da Ishhi Yuya di cui conserviamo il non molto radioso ricordo di Mitsuko Delivers visto due anni orsono al FEFF di Udine: perseverando nel suo stile a tratti trasognato e quasi sospeso nel tempo e nello spazio, il giovane regista giapponese ci racconta , partendo dal 1996, la storia della stesura di un nuovo dizionario da parte di un piccolo manipolo di studiosi di una casa editrice; la finalità del dizionario è quella di "traghettare attraverso il mare" la lingua su lidi moderni, rivisitandolo con i neologismi e gli slang generazionali.
Il lavoro che dura dodici anni vede come protagonista quasi ascetico un giovane dall'apparenza imbranata, socialmente disadattato ma che nutre una insana passione per i libri e per la lingua: la dedizione, tutta nipponica, che lo porta ad affrontare questa impresa, diventa anche una sfida a se stesso, uno slancio seppur molto flebile al rapporto con la società, fino alla storia d'amore con la nipote della sua padrona di casa che invece nutre la passione per la cucina.
Il direttore dell'opera vede nel ragazzo una passione straordinaria per lo studio e per la lingua e , dodici anni dopo , sarà lui, di fatto , a sostituirsi all'anziano e malato responsabile.
Grazie ad una regia leggera e poco ingombrante, The Great Passage ha il pregio di non annoiare , sebbene la tematica ed i ritmi si presentino favorevoli; racconta con dosata simpatia le figure di questi forzati della lingua e la loro tenacia, sembra voler guardare quasi con nostalgia ad un mondo, quello delle montagne di carte e delle matite, che lascerà presto spazio alla tecnologia, traccia un percorso di vita all'insegna del rigore e della autodisciplina.
La storia d'amore infilata nel contesto generale aggiunge poco anche perchè è evitata con cura la contrapposizione spirituale tra due soggetti apparentemente agli antipodi in cui persino la comunicazione verbale è sussurrata e stentata, ma soprattutto quello che non si riesce ad apprezzare a pieno nel film sono le frequenti dissertazioni linguistiche, cui la traduzione inevitabilmente sottrae qualcosa a meno che non si sia padroni della lingua giapponese.
Certo, in più di un momento ci si pone la fatidica domanda sul senso delle cose che vediamo in The Great Passage, ma il film è sostanzialmente un lavoro di atmosfere e di tratteggi delicati dei personaggi, con una riflessione sulla natura del linguaggio e delle parole e sulla loro trasformazione che segue il corso del tempo.
Se a ciò aggiungiamo la buona prova che offrono gli attori , The Great Passage è sicuramente film abbastanza gradevole; che poi il Giappone non avesse nulla di meglio da proporre per l'Oscar, è tutto altro discorso.
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