Nato da una sceneggiatura dello stesso regista datata ben oltre il decennio e che doveva fungere da impalcatura per un action movie, Why don't you play in hell ? ci restituisce il lato di Sono che più di ogni altro ne fa un regista originale: il gusto per l'eccesso e per l'iperbole che sconfinano nell'anarchia narrativa sommersa dal fiume di immagini.
Era dai tempi di Love Exposure che il regista giapponese non appariva così estremo e dissacrante avendo negli ultimi anni optato per storie più lontane dai suoi modelli abituali, spesso senza raggiungere risultati particolarmente apprezzabili.
E' curioso il fatto che questo lavoro esca un anno dopo The Land of Hope che dal punto di vista stilistico, nella sua classicità, sta agli antipodi del suo credo cinematografico.
Raccontarne anche per sommi capi la storia è impresa ardua tanto incalzante e zigzagante è la sceneggiatura che si basa su una lotta senza confine tra due boss della yakuza e i loro clan in mezzo ai quali si interpone una troupe cinematografica alla ricerca da 10 anni del capolavoro che segni la storia del cinema; la bipartizione narrativa si svolge su piani paralleli per gran parte del film fino a quando , e siamo alla ultima mezzora , il Dio del cinema fa incrociare i due sentieri.
Boss mafiosi urlanti e vestiti con giacche sgargianti, aspiranti attrici e registi, malcapitati, emuli di Bruce Lee, donne votate al sacrificio che inseguono il sogno di diventare madri di star cinematografiche, caricature di poliziotti , fontane di sangue che si trasformano in arcobaleno, tutti immersi in un calderone ribollente di citazioni di se stesso, del cinema classico giapponese, del kung fu, di Lady Snowblood e addirittura di Tarantino in una acrobatica contorsione di rimando che trova nella tuta gialla dell'emulo di Bruce Lee e nel volare di arti, teste mozzate e fontane di sangue il suo punto più citazionisticamente spettacolare.
Da un lato quindi una visione del Cinema con occhio sarcastico e provocatorio dove il film è tutto e vale la vita, dall'altro un divertissement sfrenato e privo quasi di regole che per certi aspetti si avvicina alle parodie dello yakuza movie di Miike Takashi, in mezzo un ruolo femmineo che stravolge un po' tutte le regole rigide della cultura giapponese.
In certi momenti Sono, atteggiandosi in maniera assolutamente involontaria all'atmosfera da Nuovo Cinema Paradiso, lancia il suo personale allarme per un mondo che vede chiudere i cinema, che ha abbandonato il 35 mm in favore del digitale ed in cui l'unica cosa che conta è il denaro.
Ma la cosa che maggiormente stupisce in positivo di Why don't you play in hell è che l'organicità del racconto che manca totalmente trova però nella forza di alcune immagini e situazioni un filo conduttore solidissimo sia esso sostenuto da una canzonetta, da una casa allagata di sangue, da scene come quella finale, lunghissima, in cui le katane si conficcano ovunque e dove a volteggiare sono le teste mozzate e le mani ancora tenacemente attaccate alla spada.
Come sempre Sono divide ferocemente il pubblico tra chi grida al capolavoro e chi lo dileggia: chiaramente questo lavoro necessita di un background di conoscenza cinematografica del regista giapponese, altrimenti le oltre due ore (che passano velocissime) risultano una accozzaglia di non sense di cattivo gusto.
A noi il Sono di questa opera piace, perchè sa affrontare con sarcastica ed ironica leggerezza il discorso sull'arte cinematografica e perchè sa dare libero sfogo alla sua irriverente ferocia che passa in questo caso attraverso la contaminazione di praticamente quasi tutti i generi cinematografici.
che figata di film!
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