*****
Quando i poli si scontrano
Altro film del filone guarda-osserva-aspetta e lasciati pervadere, questo del thailandese Pen-ek Ratanaruang che dimostra la sua indubbia bravura raccontando una storia al limite, dove la solitudine e l'incontro-scontro di due poli portano a risultati non prevedibili, incarnando in maniera terrena e tangibile la volubilità del fato.
Kenji è un bibliotecario giapponese che vive a Bangkok, circondato da libri e ossessionato dall'ordine delle cose e dall'idea del suicidio (mirabile l'incipit in cui lo teorizza); per uno scherzo del destino compierà un omicidio quasi per caso, così come casuale sembra tutto ciò che fa. Mentre fantastica in bilico su un ponte l'ennesimo tentativo di suicido, la morte si appalesa ancora, uccidendo una giovane in strada proprio davanti a lui; conoscerà quindi Noi la sorella della morta che incarna un modo di vita che giace totalmente agli antipodi rispetto al suo: è disordinata, vive in una casa sporca, più simile ad una stamberga, ma possiede senz'altro una vitalità, seppur caotica, che Kenji non conosce.
L'incontro tra i due se da un lato può apparire quanto di più ovvio, dall'altro mette a confronto in modo dialettico, nei fatti, due mondi diversi che però hanno in comune la solitudine e la vacuità che li circonda.
Tra lunghi silenzi, ...
trilli di telefono, lezioni di giapponese le due entità collidono, si allontatano e tornano ad avvicinarsi, fino a lasciare intravvedere un futuro comune nella anelata Osaka da cui lui proviene e dove lei desidera andare a vivere.
L'idea del suicidio sembra sparire così come, in una scena memorabile , il caos che regna nella casa di Noi; i piccoli eventi della vita possono cambiare il corso delle cose.
Il finale con un tocco di dinamismo e di sogno, nobilitato dalla presenza di Takashi Miike in veste di yakuza, lascerà forse l'amaro in bocca ma dimostrerà , amcora una volta, come sia difficile essere padroni del proprio destino.
Il film, dicevamo, ha bisogno di essere metabolizzato cammin facendo, giocando molto sotto traccia anche grazie ad una regia molto nascosta, attenta ai particolari, efficacissima nel lasciare parlare i volti di Asano Tadanobu e di Sinitta Boonyasak, il primo soprattutto bravissimo nel dare corpo ad una abulia pisoclogica di Kenji che quasi atterrisce.
La consueta maestria alla fotografia di Chris Doyle si distingue come valore aggiunto in un film in cui la indubbia atmosfera stagnante fa da pabulum allo svilupparsi di dinamiche che concorrono alla creazione di una pellicola che può anche lasciare interdetti al primo colpo, ma che si rivela invece come uno specchio di sentimenti fortissimi che lasciano segni indelebili.
Kenji è un bibliotecario giapponese che vive a Bangkok, circondato da libri e ossessionato dall'ordine delle cose e dall'idea del suicidio (mirabile l'incipit in cui lo teorizza); per uno scherzo del destino compierà un omicidio quasi per caso, così come casuale sembra tutto ciò che fa. Mentre fantastica in bilico su un ponte l'ennesimo tentativo di suicido, la morte si appalesa ancora, uccidendo una giovane in strada proprio davanti a lui; conoscerà quindi Noi la sorella della morta che incarna un modo di vita che giace totalmente agli antipodi rispetto al suo: è disordinata, vive in una casa sporca, più simile ad una stamberga, ma possiede senz'altro una vitalità, seppur caotica, che Kenji non conosce.
L'incontro tra i due se da un lato può apparire quanto di più ovvio, dall'altro mette a confronto in modo dialettico, nei fatti, due mondi diversi che però hanno in comune la solitudine e la vacuità che li circonda.
Tra lunghi silenzi, ...
trilli di telefono, lezioni di giapponese le due entità collidono, si allontatano e tornano ad avvicinarsi, fino a lasciare intravvedere un futuro comune nella anelata Osaka da cui lui proviene e dove lei desidera andare a vivere.
L'idea del suicidio sembra sparire così come, in una scena memorabile , il caos che regna nella casa di Noi; i piccoli eventi della vita possono cambiare il corso delle cose.
Il finale con un tocco di dinamismo e di sogno, nobilitato dalla presenza di Takashi Miike in veste di yakuza, lascerà forse l'amaro in bocca ma dimostrerà , amcora una volta, come sia difficile essere padroni del proprio destino.
Il film, dicevamo, ha bisogno di essere metabolizzato cammin facendo, giocando molto sotto traccia anche grazie ad una regia molto nascosta, attenta ai particolari, efficacissima nel lasciare parlare i volti di Asano Tadanobu e di Sinitta Boonyasak, il primo soprattutto bravissimo nel dare corpo ad una abulia pisoclogica di Kenji che quasi atterrisce.
La consueta maestria alla fotografia di Chris Doyle si distingue come valore aggiunto in un film in cui la indubbia atmosfera stagnante fa da pabulum allo svilupparsi di dinamiche che concorrono alla creazione di una pellicola che può anche lasciare interdetti al primo colpo, ma che si rivela invece come uno specchio di sentimenti fortissimi che lasciano segni indelebili.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.