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Film che sussurra e affascina
Esistono film sui quali sarebbe meglio astenersi dallo scrivere qualcosa , almeno fino a che non abbiano sedimentato e lasciato segno tangibile: The mourning forest di Naomi Kawase è uno di questi.
La visione lascia qualcosa di appena tangibile, potentissimo ma che merita elaborazione, impedendo quasi una sua descrizione che non sia fatta di rapidi flash, impressioni, ferite inferte o immagini stampate negli occhi.
E' un film sul dolore, sull'abbandono, sulla perdita che distruggono e annientano ma di fronte ai quali lo spirito può comunque tornare a sollevarsi seppur a costo di fatica immensa.
I due protagonisti del film sono impercettibilmente legati dallo stesso dolore: lui la perdita, ormai 30 anni orsono, della amata moglie; lei giovane donna annichilita dalla perdita del figlio in circostanze che ne fanno intuire una sua qualche responsabilità.
L'inoltrarsi nella foresta di Mogari (etimologicamente sembrerebbe derivare dal termine giapponese che significa "la fine del lutto") che potrebbe apparire per chiunque altro opprimente e spaventevole, diviene viaggio di rimpianto e di lancinante dolore che conduce alla catarsi e alla pace spirituale. I due conoscono e compenetrano il dramma reciproco,...
si consolano con carezze che sembrano innaturali, scaldano i loro corpi fradici d'acqua col calore che ognuno dona all'altro e terminano il cammino in un luogo che emana sacralità e senso di pace, capolinea della sofferenza rappresentata da decine di diari che l'uomo ha continuato a scrivere negli anni alla moglie e che abbandona nel luogo della rimembranza.
Il carillon che suona nel finale, sommessamente, accompagnando lo sguardo della donna, si erge a culmine del viaggio della rinascita e rappresenta uno dei momenti indimenticabili che ogni tanto il Cinema ci dona.
Il film indubbiamente soffre di una certa lentezza, ma è quell'incedere scandito da frasi sussurrate , da sguardi incrociati, da silenzi pieni di pathos che ne fanno un'opera che timidamente trasmette la forza del dramma e dei sentimenti ed insieme ad essi una riflessione sulla vita e sulla morte.
Naomi Kawase sa far vibrare forte le giuste corde con una pellicola fatta di immagini che si imprimono nella mente ed una regia misurata che lascia scorrere verso chi guarda fiumi di emozioni che affascinano e commuovono.
Sussurra il film, ma riempie di momenti bellissimi che lasciano il segno e che, una volta sedimentati, divengono l'emblema di un'opera struggente e bellissima.
La visione lascia qualcosa di appena tangibile, potentissimo ma che merita elaborazione, impedendo quasi una sua descrizione che non sia fatta di rapidi flash, impressioni, ferite inferte o immagini stampate negli occhi.
E' un film sul dolore, sull'abbandono, sulla perdita che distruggono e annientano ma di fronte ai quali lo spirito può comunque tornare a sollevarsi seppur a costo di fatica immensa.
I due protagonisti del film sono impercettibilmente legati dallo stesso dolore: lui la perdita, ormai 30 anni orsono, della amata moglie; lei giovane donna annichilita dalla perdita del figlio in circostanze che ne fanno intuire una sua qualche responsabilità.
L'inoltrarsi nella foresta di Mogari (etimologicamente sembrerebbe derivare dal termine giapponese che significa "la fine del lutto") che potrebbe apparire per chiunque altro opprimente e spaventevole, diviene viaggio di rimpianto e di lancinante dolore che conduce alla catarsi e alla pace spirituale. I due conoscono e compenetrano il dramma reciproco,...
si consolano con carezze che sembrano innaturali, scaldano i loro corpi fradici d'acqua col calore che ognuno dona all'altro e terminano il cammino in un luogo che emana sacralità e senso di pace, capolinea della sofferenza rappresentata da decine di diari che l'uomo ha continuato a scrivere negli anni alla moglie e che abbandona nel luogo della rimembranza.
Il carillon che suona nel finale, sommessamente, accompagnando lo sguardo della donna, si erge a culmine del viaggio della rinascita e rappresenta uno dei momenti indimenticabili che ogni tanto il Cinema ci dona.
Il film indubbiamente soffre di una certa lentezza, ma è quell'incedere scandito da frasi sussurrate , da sguardi incrociati, da silenzi pieni di pathos che ne fanno un'opera che timidamente trasmette la forza del dramma e dei sentimenti ed insieme ad essi una riflessione sulla vita e sulla morte.
Naomi Kawase sa far vibrare forte le giuste corde con una pellicola fatta di immagini che si imprimono nella mente ed una regia misurata che lascia scorrere verso chi guarda fiumi di emozioni che affascinano e commuovono.
Sussurra il film, ma riempie di momenti bellissimi che lasciano il segno e che, una volta sedimentati, divengono l'emblema di un'opera struggente e bellissima.
Mi hai fatto venire voglia. E comunque non tutte le lentezze vengono per nuocere, anzi. Spesso sono necessarie (e penso a "Still Life" per esempio).
RispondiEliminaGiustissimo, anche perchè è una lentezza che ammalia e penetra. Credo sia fondamentale la sensibilità di chi guarda per poter apprezzare film simili.
RispondiEliminaperfettamente d'accordo, io farei l'elogio della lentezza;
RispondiEliminafosse la gara di Usain Bolt, ma qui sono i ritmi dell'anima, della testa, del cuore a dare il ritmo.
prendere o lasciare:)
Concordo Ismaele, conta la sostanza, anche se raccontata con ritmi pacati. Se invece la lentezza è assenza di idee o peggio ancora il vuoto, allora sì che sfianca.
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