Giudizio : 10/10
Il canto dei sentimenti
E' un epopea dei sentimenti , drammatica e purissima, quella che canta il grande Im attraverso il pansori: è il dolore della separazione, il pianto dell'anima ferita e lacerata, l'urlo disperato che proviene dal profondo di chi ha vissuto una vita alla ricerca della congiunzione del suo animo con il mondo esterno.
La storia di Songwha e del fratellastro Dongho , cresciuti dal padre nel rigore e nello spirito profondo che emana il canto popolare coreano intriso di eroismo e melanconia, diviene,attraverso la magnifica regia di Im, un grande racconto metaforico che va oltre gli spazi individuali, per elevarsi a emblema delle tradizioni e della storia di tutta una nazione.
La separazione tra i due giovani e la cecità della ragazza provocata dal padre con misture di erbe, al fine di renderla drammaticamente disperata, diviene il topos del film che è perennamente percorso dai versi del pansori, profondamente morali e intimamente legati alla melanconica vicenda.
Definire il film una storia sul pansori è assolutamente riduttivo, troppo più grande ed elevato è lo spirito che emana la pellicola; il canto diventa l'elemento portante in cui tutto confluisce e da cui tutto nasce, si ammanta di un potere quasi sovrannaturale, permea profondamente la vita della ragazza e del padre, pesa come un macigno sulle spalle al punto che il giovanoe Dongho abbandonerà la famiglia , non vedendo alcuna finalità materiale nel girovagare tra case e paesi cantando.
Sarà ancora lui, ormai adulto, a ritornare alla ricerca della sorella: e da qui parte il film, una affanosa e dolorosa ricerca a ritroso del tempo e degli affetti perduti.
Quando dopo tanto girare Dongho ritroverà la sorella, il film diviene poesia pura, una scena tra le più belle che il Cinema abbia mai mostrato: i due seduti uno davanti all'altro che si riconoscono vicendevolmente senza dire nulla affidando al tamburo lui e alla voce lei l'esplosione del sentimento per la ricongiunzione; non una parola, solo un canto mai così perfetto e il volto rigato dalle lacrime.
Indubbiamente Im Kwon-taek firma uno dei momenti più straordinari del cinema coreano, dirigendo un film bellissimo, struggente, ricchissimo di forza emotiva propulsiva, coloratissima metafora del suo paese oscillante tra tradizione e modernità importata, divisioni e dolori.
La regia, e non poteva essere diversamente, è magnifica: essenziale, senza ridondanze, proprio per dare modo ai sentimenti di squarciare lo schermo, con una straordinaria maestria nel muovere la macchina da presa da un volto ad un altro durante il canto, quasi a materializzare il tumulto dell'animo; anche i paesaggi esterni sembrano partecipare rimandando il canto con una eco stupita, donando al film un senso di armonia e di perfezione stilistica incantevole.
La storia di Songwha e del fratellastro Dongho , cresciuti dal padre nel rigore e nello spirito profondo che emana il canto popolare coreano intriso di eroismo e melanconia, diviene,attraverso la magnifica regia di Im, un grande racconto metaforico che va oltre gli spazi individuali, per elevarsi a emblema delle tradizioni e della storia di tutta una nazione.
La separazione tra i due giovani e la cecità della ragazza provocata dal padre con misture di erbe, al fine di renderla drammaticamente disperata, diviene il topos del film che è perennamente percorso dai versi del pansori, profondamente morali e intimamente legati alla melanconica vicenda.
Definire il film una storia sul pansori è assolutamente riduttivo, troppo più grande ed elevato è lo spirito che emana la pellicola; il canto diventa l'elemento portante in cui tutto confluisce e da cui tutto nasce, si ammanta di un potere quasi sovrannaturale, permea profondamente la vita della ragazza e del padre, pesa come un macigno sulle spalle al punto che il giovanoe Dongho abbandonerà la famiglia , non vedendo alcuna finalità materiale nel girovagare tra case e paesi cantando.
Sarà ancora lui, ormai adulto, a ritornare alla ricerca della sorella: e da qui parte il film, una affanosa e dolorosa ricerca a ritroso del tempo e degli affetti perduti.
Quando dopo tanto girare Dongho ritroverà la sorella, il film diviene poesia pura, una scena tra le più belle che il Cinema abbia mai mostrato: i due seduti uno davanti all'altro che si riconoscono vicendevolmente senza dire nulla affidando al tamburo lui e alla voce lei l'esplosione del sentimento per la ricongiunzione; non una parola, solo un canto mai così perfetto e il volto rigato dalle lacrime.
Indubbiamente Im Kwon-taek firma uno dei momenti più straordinari del cinema coreano, dirigendo un film bellissimo, struggente, ricchissimo di forza emotiva propulsiva, coloratissima metafora del suo paese oscillante tra tradizione e modernità importata, divisioni e dolori.
La regia, e non poteva essere diversamente, è magnifica: essenziale, senza ridondanze, proprio per dare modo ai sentimenti di squarciare lo schermo, con una straordinaria maestria nel muovere la macchina da presa da un volto ad un altro durante il canto, quasi a materializzare il tumulto dell'animo; anche i paesaggi esterni sembrano partecipare rimandando il canto con una eco stupita, donando al film un senso di armonia e di perfezione stilistica incantevole.
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