*****
Carcere e vite segnate.
E' rimasto in lizza fino all'ultimo per la vittoria della Palma d'oro, in ballottaggio con Il nastro bianco di Haneke : alla fine nella giuria presieduta da Isabelle Huppert ha prevalso, una volta tanto, l'affinità artistica al proverbiale sciovinismo francese.
Il lavoro di Audiard comunque non avrebbe sfigurato affatto come vincitore del Concorso, anzi.
La storia, un po' gangster story, un po' da filone carcerario tanto in voga qualche anno fa è di quelle che lasciano il segno, colpendo per il cinico realismo e per la descrizione di un ambiente irrimediabilmente votato al dramma.
Malik (un bravissimo Tahar Rahim) è un giovane di origini arabe che viene sbattuto in carcere per scontare sei anni; all'ingresso nel penitenziario lo vediamo quasi come un vitello pronto per il mattatoio e l'inizio dell'esperienza non è dei migliori: prima i soprusi poi le avanche e infine l'incarico, autentico battesimo di fuoco, da parte di un boss corso (un fantastico Niels Arestrup) che spadroneggia nel carcere, di uccidere uno scomodo testimone.
Il giovane non sa e non può rifiutare e questo lo porterà nell'orbita del boss corso che lo prenderà sotto la sua ala protettiva.
Il tempo passa e con furbizia e scaltrezza, muovendosi tra le varie bande del carcere e con missioni camuffate da permessi premio, il giovane assurgerà a boss emergente fino a svincolarsi dal vecchio padrino.
Il finale, apparentemente positivista, nasconde invece un retrogusto amarissimo: finita la vita nel carcere, ci si getta nel mondo libero per continuare a vivere nello stesso modo.
Audiard dirige il film con grande discrezione, lasciando parlare la marea di facce da galeotto, le coltellate, gli sguardi , le trame, insomma tutto il microcosmo che si ricrea in un carcere a somiglianza del mondo esteriore; non c'è ricerca di redenzione, c'è solo il tentativo di rimettere in piedi l'unico mondo che conta per un malvivente. L'ascesa del giovane Malik e la caduta lenta e inesorabile del vecchio corso si incrociano, collimano e si scontrano spesso in un rapporto che sa tanto di aguzzino e carnefice, da qualsiasi angolo lo si valuti e il cinico messaggio che per affermarsi serve solo la violenza. Il carcere assurge ad emblema del luogo dove l'unica amicizia che conta è quella che ti fa sopravvivere dalla parte giusta, privo di ogni senso morale e di via d'uscita; il carcere passa e la vita rimarrà la stessa, anche con una bambina che aspetta fuori il portone della galera.
Il lavoro di Audiard comunque non avrebbe sfigurato affatto come vincitore del Concorso, anzi.
La storia, un po' gangster story, un po' da filone carcerario tanto in voga qualche anno fa è di quelle che lasciano il segno, colpendo per il cinico realismo e per la descrizione di un ambiente irrimediabilmente votato al dramma.
Malik (un bravissimo Tahar Rahim) è un giovane di origini arabe che viene sbattuto in carcere per scontare sei anni; all'ingresso nel penitenziario lo vediamo quasi come un vitello pronto per il mattatoio e l'inizio dell'esperienza non è dei migliori: prima i soprusi poi le avanche e infine l'incarico, autentico battesimo di fuoco, da parte di un boss corso (un fantastico Niels Arestrup) che spadroneggia nel carcere, di uccidere uno scomodo testimone.
Il giovane non sa e non può rifiutare e questo lo porterà nell'orbita del boss corso che lo prenderà sotto la sua ala protettiva.
Il tempo passa e con furbizia e scaltrezza, muovendosi tra le varie bande del carcere e con missioni camuffate da permessi premio, il giovane assurgerà a boss emergente fino a svincolarsi dal vecchio padrino.
Il finale, apparentemente positivista, nasconde invece un retrogusto amarissimo: finita la vita nel carcere, ci si getta nel mondo libero per continuare a vivere nello stesso modo.
Audiard dirige il film con grande discrezione, lasciando parlare la marea di facce da galeotto, le coltellate, gli sguardi , le trame, insomma tutto il microcosmo che si ricrea in un carcere a somiglianza del mondo esteriore; non c'è ricerca di redenzione, c'è solo il tentativo di rimettere in piedi l'unico mondo che conta per un malvivente. L'ascesa del giovane Malik e la caduta lenta e inesorabile del vecchio corso si incrociano, collimano e si scontrano spesso in un rapporto che sa tanto di aguzzino e carnefice, da qualsiasi angolo lo si valuti e il cinico messaggio che per affermarsi serve solo la violenza. Il carcere assurge ad emblema del luogo dove l'unica amicizia che conta è quella che ti fa sopravvivere dalla parte giusta, privo di ogni senso morale e di via d'uscita; il carcere passa e la vita rimarrà la stessa, anche con una bambina che aspetta fuori il portone della galera.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.