lunedì 23 agosto 2010

A soap ( Pernille Fischer Christensen , 2006 )

Giudizio: 6/10
La soap dello squallore


Cosa abbia a che vedere questo lavoro della danese Christensen con le soap opera , da cui il titolo, è mistero fitto e irrisolvibile, a meno che non si voglia dare come chiave di lettura, alquanto dozzinale a dire il vero, il costante, o quasi, sottofondo televisivo che trasmette una soap americana e che tanto affascina uno dei protagonisti come fosse il suo ideale di vita; interpetazione , suppongo, troppo banale per essere vera, in un film tra l'altro dove c'è poco spazio per qualcosa che abbia un colore diverso dal grigio cupo.
Charlotte, stanca e vogliosa di libertà , molla il marito e va a vivere in un condominio squallido, in cui al piano di sotto abita un travestito in attesa di cambiare sesso e che si guadagna da vivere facendo marchette; lei dal canto suo trasforma la casa in una sorta di deposito, con il solo letto usato ed abusato con frequenti incontri estemporanei.
L'incontro tra queste due squallide solitudini sarà inevitabile e sarà scandito da momenti di amicizia alternati ad altri in cui la cattiveria scorre a fiumi , fino ad intravedersi un inaspettato sviluppo. Finale apertissimo, tutto sommato meno pessimista di tutto il resto del film.
Il lavoro della Christensen ha le stigmate del cinema danese di derivazione Von Trier: uso smodato , anzi assoluto, della macchina a spalla, ambiente claustrofico, tutto il film si svolge all'interno dei due appartamenti, attori pedinati in ogni angolo, presa diretta; unico spiraglio esterno una ripetuta fino alla nausea inquadratura di un albero in fiore fuori dal palazzo.
Quello che maggiormente colpisce del film , e al contempo nel costituisce il vero limite, è uno smisurato senso di squallore in cui trova spazio la ipersensibilità del trans, sempre sull'orlo del suicidio e in conflitto con se stesso e con la famiglia, l'inquietudine della protagonista della quale ad un certo punto si fatica a capire ogni cosa, il marito, ferito nell'orgoglio , che non si crea problemi a ricorrere alle mani e alla violenza: un quadro insomma che più miserabile non si potrebbe.
Viceversa, il rapporto tra Charlotte e Veronica (alias Ulrik) è ben disegnato e offre anche dei momenti belli, soprattutto nel sottilo gioco di ambiguità che si instaura e che il finale non risolve assolutamente, così come il muoversi tra una camera all'altra dietro agli attori rende molto vivo un ambiente altrimenti tetro e molto poco pulsante: in questo la regista è brava e le si può perdonare anche l'incomprensibile scelta della voce narrante fuoricampo che funge da siparietto riassumendo e tracciando la strada dei vari quadri di cui è composto il film.
Se l'intento della regista era quello di mostrarci fino a che punto può portare l'inquietudine del corpo e della mente, direi che è andata anche oltre, raccontando una storia in cui si sfiora l'alienazione, ma che il tocco finale rischiara con un raggio di luce.

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