Atmosfere da noir per un thriller capovolto
E' un film a metà strada tra il noir e il thriller il lavoro dell'accoppiata Mak-Lau che inevitabilmente non può sfuggire al paragone con la trilogia di Infernal Affairs che ha visto per la prima volta insieme sul set i due registi: nonostante il tentativo di richiamare, sia nelle atmosfere che nelle tematiche, le pellicole precedenti, Confession of pain è opera che ,pur presentando qualche pregio, non raggiunge assolutamente quei livelli artistici.
La sua faccia bifronte da un lato mostra aspetti belli laddove gioca con le atmosfere da noir cupo, dall'altro perde di sostanza quando si incanala nel thriller, molto sui generis visto che la struttura tipica che crea la suspance è ben presto stravolta dalla scoperta del responsabile del delitto.
Hei e Bong lavorano assieme nella polizia e li vediamo da subito, nella sera di Natale, impegnati in un appostamento e nella caccia di un malvivente, introduzione tutta giocata sulla creazione di una atmosfera fatta di dialoghi, di whiskey on the rock e di confidenze.
Poi Bong trova la sua fidanzata morta suicida, il suocero di Hei viene massacrato in casa e la moglie di Hei subisce minacce da un fantomatico personaggio,motivo per cui decide di assoldare Bong, nel frattempo ridottosi a gironzolare ubriaco tra un bar ed un altro divorato dal dolore e dal rimorso, come detective privato: da qui inizia quello che vorrebbe essere un thriller, cui però i registi decidono di dare subito il colpo di grazia mostrandoci quello che solitamente si vede alla fine.
E allora il film diventa tutto un inseguimento alle dinamiche che hanno portato all'omicidio del suocero di Hei, nascoste nel passato e alimentate dalla vendetta studiata e meticolosamente pianificata.
La soluzione, che a dire il vero giunge anche con troppo ritardo, ci consegna solo un vincitore, colui che sembrava il loser predestinato e ci sbatte in faccia la verità cinematografica di cui il cinema orientale si nutre da anni: la vendetta rende prigionieri, autofagocita e porta inevitabilmente e comunque alla sconfitta.
La scelta dei registi di capovolgere la struttura narrativa classica del thriller seguendo lo schema da Tenente Colombo potrebbe anche non essere malvagia se solo fosse sostenuta da un sottile gioco che conduce chi indaga alla soluzione, cosa che invece spesso latita, continuando invece il film a presentare i suoi momenti migliori proprio nelle ambientazioni e nei momenti quasi intimistici che offre, soprattutto quando i due personaggi si mettono allo specchio uno di fronte all'altro.
Inoltre una certa patinata ricercatezza delle immagini, soprattutto nelle vedute dell'ex colonia, che appare forzata toglie quello smalto da storia maledetta che invece le atmosfere vorrebbero alimentare.
Nel complesso il film si lascia vedere, ma passa senza lasciare una traccia indelebile in quel cinema HKese che ci ha regalato ben altri capolavori.
Anche la prova di Tony Leung, solitamente bravissimo nella sua perfezione recitativa, appare un po' sottotono, lasciando trasparire poco del dramma personale, mentre Takeshi Kaneshiro convince ancora meno nel suo essere troppo lindamente trasandato.
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