Violenza sempre più cupa
Tre anni dopo quello che a tutt'oggi rimane uno degli esordi più sorprendenti del cinema coreano, il regista di The Chaser, dirige, riscuotendo grande successo a Cannes, The yellow sea, film che per molti aspetti sembra continuare lungo il sentiero tracciato dalla bellissima opera prima.
E' ancora un thriller, frenetico, spietato, eccessivo se vogliamo , ma che ha la sua ragione di esistere, non apparendo assolutamente nulla forzato o incoerente.
La storia è quella di un taxista che vive miseramente in una zona abitata da sino-coreani, malvisti sia dai cinesi che dai coreani, oberato di debiti contratti col gioco, con la moglie rientrata in Corea del Sud a cercare fortuna di cui però ha perso le tracce (e i soldi che gli doveva mandare).
Quando un boss locale gli offre l'occasione di ripianare i suoi debiti compiendo un omicidio a Seoul, Gu-nam accetta, improvvisandosi killer.
Al momento di compiere l'omicidio, il destino beffardo metterà sullo stesso binario il nostro eroe, la malavita coreana, quella cinese e la polizia col risultato di ribaltare tutto il piano e di trasformare Gu-nam in un braccato che deve fare della fuga la sua unica ragione di vita.
Parallelamente al suo compito professionale l'uomo cercherà di mettersi sulle tracce della moglie, di cui immagina come in un incubo tradimenti a non finire.
Finale naturalmente e doverosamente tragico e mesto , giusto per suggellare un lavoro che fa del degrado morale il suo filo conduttore.
Alcune cose nel film rifulgono di luce intensissima: il clima cupo e squallido, degna cornice all'esistenza di personaggi ormai alla deriva irrefrenabile, la figura da doloroso perdente di Gu-nam nella vita , nel gioco, nel suo essere killer improvvisato per necessità, la totale mancanza di eroismo e di valori, come ad esempio si trova sempre nei thriller HKesi, alcuni momenti in cui pur nell'apoteosi e nel tripudio di violenza bruta , nasce improvviso e incontenibile il sorriso (ossi avanzi di pasti usati come clave per spaccare crani), personaggi che come animali braccati e feriti diventano sempre più feroci e abietti.
La tensione tipica del thriller è discretamente sostenuta , anche se rispetto a The Chaser ce ne è molta meno, le ambientazioni si integrano perfettamente con il degrado morale dei personaggi, la storia fila abbastanza lineare con un incalzare di violenza che va di pari passo con l'ineluttabilità degli eventi.
Quello che invece stona un po' è l'eccessiva dilatazione dei momenti di azione (inseguimenti interminabili, massacri che si trascinano) che causano una eccessiva durata del film stesso fin alle due ore e mezza complessive.
Inoltre Na stavolta lascia un po' in disparte il suo occhio critico posato magistralmente in maniera ironica sulla polizia come faceva nel suo lavoro precedente e probabilmente non approfondisce più di tanto l'aspetto politico e sociale legato agli joseonjok, comunità sino-coreana che vive relegata in terra di confine, cui appartengono i due protagonisti principali.
Nel complesso però il film mostra ancora una volta il grande talento cinematografico di Na, stavolta forse troppo incline alla spettacolarizzazione tipica del mainstream che toglie qualcosa a quel clima lugubre e buio che caratterizzava The Chaser.
Anche stavolta si avvale degli stessi attori, curiosamente a parti invertite rispetto al primo lavoro: Ha Jung-woo stavolta nel ruolo del meno cattivo Gu-nam (di buoni neppure l'ombra...) e Kim Yun-seok nei panni di Myung-ga il datore di lavoro e mandante dell'omicidio, entrambi molto bravi nel reggere la parte.
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