Giudizio: 9/10
Miguel Gomes si conferma come uno dei registi più originali del panorama contemporaneo con Grand Tour, un'opera che mescola epoche storiche, linguaggi cinematografici e riflessioni sul tempo e sulla memoria.
Presentato in concorso al Festival di Cannes 2024 ricevendo il Premio per la migliore regia, il film si impone come una delle esperienze visive più ambiziose e affascinanti degli ultimi anni riportandoci in qualche modo alla memoria quello che rimane il film più ambizioso e più riuscito di Gomes , il colossale Arabian Nights.
La storia di Grand Tour è ambientata nel 1918 e segue le vicende di Edward, un funzionario dell'Impero britannico in servizio a Rangoon, in Birmania. Alla vigilia del suo matrimonio con Molly, l’uomo è colto da un improvviso senso di oppressione e fugge in un viaggio che lo porta attraverso diverse città dell’Asia: Singapore, Bangkok, Saigon, Manila, Osaka e Shanghai, sempre fuggendo non appena gli arrivi notizia che la sua promessa sposa è sulle sue tracce. Ma Molly non si rassegna alla fuga e decide di inseguirlo, trasformando la trama in un racconto di inseguimento amoroso che si sviluppa in modo frammentato e non lineare, con salti temporali e un continuo oscillare tra immagini d’epoca di finzione e immagini del presente in stile documentaristico; il film non si limita alla narrazione storica: la regia di Gomes sovrappone alla storia del 1918 immagini e suoni del presente, creando un continuo cortocircuito temporale. I protagonisti si muovono in ambienti che oscillano tra ricostruzioni storiche e paesaggi moderni, mentre la voce narrante si confonde con interviste e registrazioni contemporanee. Questa scelta stilistica conferisce al film un carattere quasi documentaristico, in cui il passato non è mai una dimensione fissa, ma qualcosa che si rifrange e si sovrappone al presente.
La fuga di Edward non è solo fisica ma anche esistenziale: il suo viaggio diventa una metafora del desiderio di evasione da un destino prestabilito, dal peso delle responsabilità e dalle convenzioni sociali. Il protagonista incarna l’ansia dell’uomo moderno, il bisogno di sottrarsi alla definizione imposta dall’autorità e dalle strutture del potere coloniale. In questo senso, il film esplora anche il tema dell’identità: chi è veramente Edward, se continua a scappare da sé stesso?
Molly, al contrario, rappresenta una forza opposta: la sua ricerca instancabile e testarda è un atto di determinazione, ma anche di autoaffermazione. Inseguendo Edward, in realtà, sta inseguendo la propria libertà, il proprio diritto a decidere cosa sia importante per lei. Gomes costruisce così due archetipi complementari: l’uomo che fugge e la donna che insegue, ribaltando in parte le dinamiche classiche della narrativa romantica.
Uno degli aspetti più interessanti di Grand Tour è il modo in cui Gomes riflette sull’Asia coloniale e sulle sue trasformazioni nel tempo: attraverso il viaggio di Edward e Molly, il film esplora città che un tempo erano avamposti dell’imperialismo occidentale e che oggi sono metropoli globalizzate. Ma il passaggio dal passato al presente non avviene attraverso un montaggio tradizionale: Gomes inserisce sequenze moderne senza preavviso, lasciando che le immagini storiche e contemporanee si mescolino in un flusso visivo unico.
Questa scelta non è solo estetica, ma anche politica e culturale. Gomes suggerisce che l'Occidente ha sempre avuto difficoltà a comprendere l'Oriente al di fuori delle sue categorie imposte, perpetuando un’idea esotizzata e stereotipata di questi luoghi.
Edward, nel suo continuo fuggire, incarna non solo il disagio individuale ma anche l'incapacità dell'europeo coloniale di inserirsi veramente nel contesto asiatico senza imporre il proprio sguardo. Il film sottolinea come i segni dell’imperialismo siano ancora visibili, non solo nell'architettura o nelle strutture economiche, ma anche nella mentalità con cui l’Occidente continua a relazionarsi con questi spazi. Grand Tour diventa così una riflessione profonda sul modo in cui la storia del colonialismo continua a modellare la percezione dell'altro, rendendo il viaggio non solo geografico, ma anche interiore e culturale.
Questa strategia narrativa non solo mette in discussione la linearità del tempo, ma anche il modo in cui percepiamo la storia. Se l’Occidente ha sempre raccontato il colonialismo come un periodo chiuso e concluso, il film suggerisce che le sue tracce sono ancora ben visibili nella cultura, nell’architettura e nelle relazioni sociali dell’Asia di oggi.
Dal punto di vista stilistico, Grand Tour è un esperimento affascinante e brillantemente riuscito. Gomes utilizza pellicola 16mm, alternando sequenze in bianco e nero e a colori, e combinando materiali d’archivio con riprese moderne. Questa scelta estetica dona al film un’atmosfera onirica e disorientante, accentuata dal continuo gioco tra reale e ricostruito.
Il valore del tempo assume un ruolo centrale in questa struttura frammentata: il film dissolve i confini tra epoche, facendo emergere il passato non come un’entità fissa, ma come un flusso che si riverbera nel presente. La narrazione si sviluppa in modo ellittico, evitando una progressione lineare e abbracciando una logica della sovrapposizione, dove il tempo diventa un mosaico di frammenti che si riflettono e si influenzano reciprocamente.
Gomes adotta inoltre una tecnica quasi documentaristica, lasciando spazio a lunghe riprese di paesaggi, città e volti anonimi, che conferiscono alla pellicola una dimensione antropologica. L’effetto è quello di un viaggio nel tempo e nello spazio che diventa in alcuni tratti quasi fiabesco o addirittura uno di quei racconti con cui nell’800 e nel primo 900 si dipingeva l’oriente coloniale, in cui il confine tra passato e presente si fa labile e sfumato. In questo senso, Grand Tour non è solo un’indagine sulla memoria storica, ma anche una riflessione più ampia sulla percezione soggettiva del tempo, sulla sua natura ciclica e sulla persistenza di tracce che, anziché scomparire, continuano a riemergere sotto nuove forme.
Il regista adotta inoltre una tecnica quasi documentaristica, lasciando spazio a lunghe riprese di paesaggi, città e volti anonimi, che conferiscono alla pellicola una dimensione antropologica. L'effetto è quello di un viaggio nel tempo e nello spazio, in cui il confine tra passato e presente si fa labile e sfumato.
Grand Tour è un film complesso e stratificato, raffinato e colto che sfida lo spettatore a lasciarsi trasportare senza la sicurezza di una trama convenzionale. La sua struttura frammentata può risultare spiazzante, ma è proprio in questa indeterminatezza che risiede il suo fascino; ed è con questa costruzione che la pellicola diventa sempre più un lasciarsi trascinare in una storia che fluttua continuamente tra le onde del tempo.
Miguel Gomes non offre risposte semplici: il suo film è un’esperienza visiva e intellettuale che invita a riflettere sul tempo, sulla memoria e sulla nostra percezione della storia. Un viaggio che, pur non avendo una meta precisa, riesce a condurre lo spettatore in un universo ricco di suggestioni e interrogativi.
Con Grand Tour, il regista portoghese si conferma un maestro nell’arte di fondere realtà e immaginazione, dimostrando ancora una volta che il cinema può essere uno strumento straordinario per esplorare il mondo e la nostra relazione con esso e che ci ricorda come il regista portoghese (altro esempio di cineasta mai menzionato quando si parla dei più grandi registi contemporanei) appartenga di diritto a quella ridotta congrega di artisti dell’arte filmica capaci di lasciare sempre un segno indelebile con le loro opere: Grand Tour infatti risulta essere uno dei più bei film della stagione appena conclusa, uno di quei lavori di cui il Cinema avrebbe disperato bisogno in gran quantità per affermare la centralità dell’opera d’arte insita nella pellicola.
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