venerdì 19 febbraio 2010

Green tea ( Zhang Yuan , 2003 )

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La foglie di te e la leggerezza dell'inquietudine


Appartenente al movimento della cosiddetta Sesta Generazione dei cineasti cinesi, Zhang stupisce con questo Green Tea ,un film che forse a molti farà storcere il naso, come spesso avviene per la cinematografia cinese moderna, ma che per altri è autentica e purissima gioia per gli occhi, come dovrebbero essere le arti visive. Stimola fortemente lo sguardo questa storia semplice all'apparenza, descritta con linearità e nobilitata dalla fotografia di Christopher Doyle, una storia che descrive i tormenti sentimentali che si sviluppano nella solitudine e attraverso strade tortuose.
Fang è una giovane studentessa che passa il suo tempo libero dedicandosi agli incontri al buio, in uno di questi incrocia Chen, appena mollato dalla fidanzata ed in evidente crisi amorosa. Nasce un rapporto travagliato, seppur descritto con molta leggerezza e senza isterie, in cui Chen si sente attratto da questa ragazza dall'apparenza dimessa , la quale a sua volta tende e rilascia la corda non mostrando le sue reli intenzioni; si raccontano storie di altri nei loro incontri, storie che hanno del surreale e del drammatico allo stesso tempo, si intuisce quasi che l'amica di cui parla Fang altri non sia che se stessa, accanita bevitrice di te verde di cui sa leggere le foglie come una aruspice sa farlo con le interiora degli uccelli. Quando Chen incontra una pianista da pianobar che somiglia in tutto e per tutto a Fang , solo più disinibita, più femminile e più disponibile, l'affare si complica: da chi è attratto Chen ? dalla dimessa Fang o dalla seducente pianista? è la doppia faccia di una stessa medaglia? sono la stessa persona ? Il finale ci darà una possibile linea di lettura, con l'immancabile  tazza  in cui volteggiano leggere le foglie di te verde a chiudere il film.
E' un film che ha il grandissimo pregio di descrivere stati d'animo pregnanti con una leggerezza  e semplicità che stupiscono, facendo ricorso ad un certo intimismo che non infastidisce per nulla , accentuato da una visione di Pechino assolutamente atipica, priva di quel brulicare umano cui siamo abituati a vederla, ma nel contempo elegante e raffinata, quasi ad isolare i personaggi dal contesto che li circonda.
Tutta la pellicola vive sui dialoghi , in certi momenti fitti, quasi sempre nell'ombra, in ambienti in cui il rosso pompeian-lynchiano domina incontrastato; il regista si serve di frequentissimi primi piani , interferisce pochissimo con lo scorrere dei dialoghi,  al punto che alcuni momenti sembra più di essere in una piece teatrale che in un film.
Avvalendosi di due superbi interpreti quali Vicky Zhao nel ruolo di Fang, bravissima nel reggere il doppio ruolo con il semplice mutare dello sguardo, e Jiang Wen in quello di Chen, efficacissimo nel mettere sullo schermo i tumulti e le inquietudini che lo animano, Zhang lascia il campo apertissimo ai due protagonisti che si immergono con pacata leggerezza in un gioco delle parti che percorre tutto il film.

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