Giudizio: 9/10
Dopo una attesa di otto anni dall’uscita di Poetry, suo ultimo lavoro, Lee Chang-dong sceglie il palcoscenico del Festival di Cannes per mostrare la sua più recente fatica: Burning, ispirato ad un racconto breve di Haruki Murakami, premia la fiducia dei più assidui estimatori del regista coreano che hanno consumato l’attesa di molti anni con grande pazienza, ponendosi come la più enigmatica e al tempo stesso tra le migliori opere; la pellicola infatti mostra non solo la raffinata maestria alla regia di Lee che ben conosciamo, ma anche una struttura narrativa ad incastri ma armoniosa, una serie di riflessioni su aspetti della società coreana contemporanea e soprattutto la descrizione di un disagio che travalica nella ossessione visionaria.
La trama intorno cui si sviluppa la storia è apparentemente piuttosto semplice: Jong-su lavora come fattorino, durante una delle sue consegne incontra una vecchia compagna di scuola, Hae-mi, nonché vicina di casa in una città di provincia prossima al confine con la Corea del Nord; forse c’è qualcosa di sopito o forse è solo un qualcosa di improvviso, ma i due iniziano a frequentarsi fino a quando lei non parte per un viaggio in Africa pregando il ragazzo di tenere d’occhio il suo gatto.
Al ritorno dalla vacanza, Hae-mi si presenta con un giovane conosciuto durante il viaggio, Ben, un riccone belloccio che appare tutto il contrario di Jong-su.
Sembra aprirsi un racconto di un intreccio amoroso a tre, e l’incedere del racconto non fa nulla per smentirlo, almeno fino a quando in un confronto chiave tra Jong-su e Ben , quest’ultimo confessa all’altro il suo strano hobby di dare fuoco alle serre; poco dopo Hae-mi scompare e Jong-su, che senza peli sulla lingua ha confessato accoratamente il suo amore per la ragazza, cerca di vederci chiaro, scivolando però piano piano in un gorgo di ossessioni e di presunte verità nascoste.
Burning inizia dunque come un film incentrato su una rapporto amoroso difficoltoso e inusuale tra due persone che appartengono a quell’ambiente di provincia e più vicino al proletariato che alla classe media, con alle spalle storie famigliari disintegrate, caratterizzate più dalle assenze che dalla presenze, nel quale si insinua il Grande Gatsby coreano, come lo definisce Jong-so, figlio della grande borghesia e straricco: un “presunto” triangolo insomma tra una ragazza che di fronte ad un tramonto (scena memorabile) piange dicendo che vorrebbe sparire come il sole senza provare dolore, un ragazzotto di provincia un po’ orso e schivo, aspirante scrittore che ammira William Faulkner e che però è in crisi di ispirazione perché non riesce a capire il mondo e un personaggio tra il dandy e il riccone smaccato con strani hobby e anche un po’ misterioso.
Quando però i due si confrontano dopo il tramonto in campagna che ha scosso Hae-mi , il film scivola inesorabilmente verso il thriller , grazie ad una inesorabile e montante tensione che sale.
Questo cambiare registro quasi con naturalezza unito all’atmosfera che si respira in tutto il film , in ogni suo frammento ( e a maggior ragione una volta finito il film ), sono il pregio sicuramente più grande di Burning, opera plasmata dalla mano di un grandissimo regista.
La recensione completa può essere letta su LinkinMovies.it
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