lunedì 22 dicembre 2025

Sirat ( Oliver Laxe , 2025 )

 



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Giudizio: 8/10

Sirat di Oliver Laxe, vincitore del Premio della Giuria al Festival di Cannes, è un film che chiede allo spettatore qualcosa di raro nel cinema contemporaneo: non tanto di “capire”, quanto di attraversare. Attraversare un territorio fisico e mentale, un racconto che si spoglia progressivamente di coordinate narrative tradizionali per farsi esperienza sensoriale, mistica, quasi iniziatica.
Un’opera che nasce come road movie angosciato, sembra calcare le orme di Mad Max e finisce per trasformarsi in un viaggio spirituale dentro un mondo che sta morendo  o che forse è già morto da tempo.
La trama è esilissima: un uomo col figlio ragazzino si imbarcano nell'impresa di cercare la figlie e sorella scomparsa da cinque mesi: si recano a cercarla in un  rave che si svolge tra le montagne e il deserto del Marocco; qui si aggregano ad una piccola carovana di ravers (tutti autentici) diretti in una altra zona , al confine con la Mauritania, dove è previsto un altro incontro rave; col passare del tempo i due mondi ,freakkettoni mezzi freaks ( con tanto di maglia coi personaggi del film di Todd Browning) con due monchi da un lato, un padre pingue piccolo borghese dall'altro, trova modo di collimare e di afrontare il viaggio che diventa una apologia di misticismo.
Il titolo non è un semplice riferimento suggestivo, ma una vera chiave di lettura: nella tradizione islamica, il Sirat è il ponte sottilissimo che, nel Giorno del Giudizio, ogni anima deve attraversare per raggiungere il paradiso o precipitare nell’inferno. Un passaggio pericoloso, instabile, che richiede fede, equilibrio, abbandono. 
Laxe costruisce l’intero film come una metafora di questo attraversamento: non un cammino lineare, ma una prova, un’esperienza liminale in cui i personaggi , e con loro lo spettatore , sono costretti a confrontarsi con la fine, con la perdita di senso, con l’idea stessa di salvezza.
Il Sirat, qui, non è solo un luogo ultraterreno: è il mondo contemporaneo, ridotto a un corridoio fragile sospeso sopra il baratro.
Nella sua prima parte, Sirat si presenta come un road movie nervoso e inquieto: i personaggi si muovono, fuggono, inseguono qualcosa che non è mai del tutto esplicitato. La strada diventa uno spazio di transito e di ansia, un movimento continuo che non porta a una meta rassicurante. Ma progressivamente il film si spoglia della sua struttura narrativa più riconoscibile.
Quando il racconto approda nel deserto, tutto cambia. Il paesaggio non è più solo uno sfondo, ma una condizione dell’anima. 
Il deserto di Laxe non è naturalistico: è una idealizzazione metafisica, uno spazio astratto in cui il tempo sembra collassare e la vita è ridotta al suo battito primordiale. È qui che la rave music, con il suo pulsare ossessivo, diventa il vero cuore vitale del film: una musica tribale, ipnotica, che guida i corpi come un rito collettivo.



La rave non è evasione, ma ultima forma di comunità, ultimo tentativo di sentirsi vivi mentre tutto intorno si disgrega. Il deserto diventa così una cattedrale laica, un luogo di trance in cui la vita insiste, ostinata, anche sull’orlo dell’estinzione.
Il film è attraversato da un sottotesto costante e inquietante: i rumori della guerra, lontani ma persistenti, non vediamo mai il conflitto, ma lo sentiamo e lo intuiamo dai dispacci radiofonici e dalle carovane militari che attraversano il deserto. È una presenza fantasma, come una minaccia che incombe su ogni inquadratura. Laxe non racconta un’apocalisse futura, ma un mondo già avviato verso la fine.
Emblematica la frase che attraversa il film come una sentenza:
“È arrivata la fine del mondo?” “La fine del mondo è iniziata già da molto tempo.”
In queste parole si condensa l’intero senso dell’opera. Sirat non parla di un evento improvviso, ma di un processo lento e inesorabile di disfacimento: delle relazioni, delle comunità, delle certezze spirituali e politiche. La fine non è spettacolare, è silenziosa, stratificata, quasi invisibile, e proprio per questo più angosciante.
Il finale del film è carico di una tensione quasi insostenibile. Laxe non offre spiegazioni, non concede catarsi. Ciò che conta non è ciò che accade, ma come viene vissuto. Il climax finale è una prova ultima, un attraversamento definitivo del Sirat, in cui la sopravvivenza fisica diventa secondaria rispetto a quella spirituale.
Il carico metaforico è evidente: il passaggio finale è un giudizio senza giudice, una soglia che ognuno deve attraversare da solo. Il film si chiude lasciando lo spettatore sospeso, costretto a interrogarsi non sul destino dei personaggi, ma, con angoscia, sul proprio.

domenica 21 dicembre 2025

Bugonia ( Yorgos Lanthimos , 2025 )

 



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Giudizio: 8,5/10 

Presentato a Venezia alla ultima Mostra Internazionale del Cinema e liberamente ispirato al film coreano del 2003 Save the Green Planet di Jang Joohwan Bugonia parte da un’idea di base  volutamente bizzarra e surreale come spesso succede con Yorgos Lanthimos  che sembra quasi una distopia da fantascienza grottesca: due cugini complottisti , uno più scemo  dell’altro, convinti che la potente CEO di una multinazionale farmaceutica, Michelle Fuller (interpretata da Emma Stone), sia in realtà un’aliena Andromediana  venuta a distruggere il pianeta, la rapiscono e la torturano in uno scantinato. 
L’ambientazione claustrofobica — un seminterrato degradato, sporco, quasi “teatrale” — spinge lo spettatore a concentrarsi su dialoghi, interrogatori, psicologie contorte, intenzioni oscure. La distinzione tra vittima e carnefice diventa labile: non è chiaro chi, in questa dinamica, sia davvero alieno, e chi invece umano ma irrimediabilmente contaminato da follia, risentimento o disperazione.  
E’ la donna veramente una aliena? Ovviamente  essendo il tutto possibile solo nella mente dello scemo complottasti, che comunque scopriremo nel tempo che è come lo vediamo anche per esperienze passate dolorose, e cioè la madre , ridotta a vegetale in seguito ad una terapia per curare la sua dipendenza che ha presentato una imprevista complicanza del farmaco prodotto dall’azienda della CEO rapita.
In Bugonia, non è la dimensione “aliena” in senso classico ciò che conta di più,  quanto piuttosto l'allegoria: il rapimento, la prigionia, l’interrogatorio sono un pretesto per mettere in scena le dinamiche di potere, di sospetto, di follia collettiva, e per denunciare un mondo fatto di ingiustizie sociali, economiche, esistenziali in preda alla follia paranoica del complottismo, della violenza, del morboso legame con le armi, e con la brezza mai palesemente esplicitata del trumpismo, ma chiaramente leggibile.
Il titolo stesso, Bugonia, allude a un mito antico descritto da Virgilio nelle Georgiche: la credenza secondo cui dalle carcasse di animali morti , in particolare buoi , possano nascere spontaneamente delle api. Un’idea che evoca rigenerazione, rinascita dalla morte, rigenerazione post-catastrofica. 
In questo senso, la metafora è potente: il mondo (o l’umanità) come un organismo morente, le sue carcasse , simbolo di devastazione, collasso, distruzione , come potenziali germogli di qualcosa di nuovo, o quantomeno come una fase di passaggio. 
Lanthimos sospende la dicotomia rosea della “rinascita”, mostrandoci invece un presente marcio, malato, in cui la rigenerazione può assumere forme grottesche, contorte, deliranti.



L’ipotesi di rigenerazione  come in un rituale primordiale, quasi pagano , viene contaminata da paranoie, complotti, isterie. In questo modo, la catastrofe ecologica non è un orizzonte futuribile, bensì un’ombra concreta sulle nostre vite. L’“estinzione” non è solo biologica, ma anche morale e sociale: il film suggerisce che siamo già nel baratro, se accettiamo di ignorare le crepe. 
Questa interpretazione conferisce al film un forte valore allegorico, e lo rende più di una semplice distopia paranoide: una critica sociale e ambientale radicale.
La figura di Michelle Fuller , CEO spietata, implacabile, elegante, che parla come menzioni aziendali, incarnando un freddo linguaggio “corporate” , diventa quasi un archetipo: non un mostro alieno in senso fantascientifico, ma una creatura del capitalismo estremo, divoratrice di valori umani e quindi di fatto quasi un essere al di fuori dell’umano, più vicina “mostro”.
Il contrasto tra i due cugini  uno convinto complottista / apicoltore, l’altro chiaramente di puro interesse psichiatrico,   e la donna “aliena” rappresenta lo scontro tra due mondi deformati: da un lato la disperazione, la rabbia, la paranoia; dall’altro un potere sociale, economico disumanizzante, che riduce l’umanità a numeri, profitti, efficienza sterile.
Lanthimos sembra dire: non è più tanto la natura a minacciarci come specie bensì la logica del profitto, della manipolazione, della disconnessione morale. La razionalità corporativa, con la sua facciata di professionalità, tolleranza, inclusione, maschera solo un vuoto morale, una voragine di indifferenza e spersonalizzazione.
Bugonia è anche un film sul potere corrosivo delle credenze, delle paure, delle visioni paranoiche , di come certe persone siano disposte a credere a narrazioni assurde, perché rispondono a un bisogno profondo: quello di dare un senso al caos. I due protagonisti si costruiscono un mondo parallelo, abitato da alieni, minacce cosmiche, complotti farmaceutici: è un mondo parallelo, ma per loro è reale, accentuando nel loro pensiero una teoria di catastrofe imminente e di ineluttabilità.
Lanthimos non dà risposte facili: lascia che lo spettatore sia corroso dal dubbio: Michelle è davvero un’aliena? O è semplicemente un essere umano , o qualcosa di peggio: una rappresentazione della corruzione e del cinismo del sistema? 
Il confine tra follia e verità, tra denuncia e delirio, è sfocato. Questo è forse uno degli aspetti più inquietanti: la consapevolezza che in una società dove la verità è liquida  bombardata come è da fake news, teorie, disinformazione, santoni, influencer e autentitici folli dementi, la convivenza tra visioni del mondo radicali e contraddittorie è non solo possibile, ma pericolosamente attuale.
L’intento del regista non è costruire un horror fantascientifico tradizionale, ma un ritratto disturbante, grottesco, di quel malessere sociale che, a noi spettatori occidentali “moderni”, può sembrare esagerato  eppure appare tanto reale.
Una delle scelte più coraggiose di Lanthimos è quella di non accettare un registro unico: Bugonia oscilla continuamente tra commedia nera, thriller paranoico, dramma esistenziale ed apocalisse imminente , come suggerisce il sorprendente finale.  Questo scarto di toni , a volte sbilanciato, a volte volutamente disturbante , crea un effetto di straniamento che mette in crisi lo spettatore: la risata di adesso può diventare lo sgomento e l’angoscia di un attimo dopo, il clima ridanciano da commedia può degenerare in un un battito di ciglia nella violenza più cruda.
Il regista sfrutta al massimo il contrasto tra il linguaggio formale, quasi da “buone maniere sociali”  tipico degli ambienti corporate, delle presentazioni di lavoro, delle facciate di civiltà  e la brutalità primitiva nascosta sotto la superficie. Il pasto a tavola con dialoghi educati che nascondono odio, rabbia, disperazione è  un momento emblematico che riflette la doppia natura della società contemporanea: l’apparenza e il contenuto, la facciata e il veleno. 

sabato 13 dicembre 2025

Una battaglia dopo l'altra [aka One Battle After Another] ( Paul Thomas Anderson , 2025 )

 



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Giudizio: 7/10

Affrontare Una battaglia dopo l’altra significa, inevitabilmente, confrontarsi non solo con un film, ma con l’idea stessa che Paul Thomas Anderson, forse l'autore americano più importante di questo periodo, ha del cinema come spazio di interrogazione morale e politica. È un’opera che molti hanno salutato come un ritorno “impegnato” del regista, come una presa di posizione esplicita sull’America contemporanea, sulle sue derive ideologiche e sulla stanchezza cronica di ogni progetto rivoluzionario. Ed è proprio qui che, molto probabilmente, il film mostra tanto le sue ambizioni quanto i suoi limiti.
Il film, ispirato a Vineland, romanzo di Thomas Pynchon, autore col quale Anderson già si era confrontato ai tempi di Vizio di forma, è ambientato in un epoca imprecisata che approssimativamente possiamo datare fra i primi anni duemila a più o meno l'epoca contemporanea e tratta la storia di due personaggi legati ad un gruppo estremista americano che insegue la rivoluzione e che è attivo nelle operazioni dimostrative (liberazione di immigrati, bombe, minacce etc): Bob e Perfidia Beverlu Hills , i protagonisti sono anche legati da una relazione amorosa che si interromperà bruscamente allorquando durante una rapina in banca la donna uccide un poliziotto e viene quindi arrestata e il gruppo momentaneamente sciolto. Bob rimane quindi da solo a crescere la figlia nel frattempo nata e si ritira a vita privata al confine tra Messico e USA , mentre Perfidia scompare dopo avere tradito i compagni del suo gruppo in cambio della adesione al programma di protezione dei testimoni. Dopo sedici anni qualcosa e qualcunio riemergono dal passato mettendo a rischio la vita della figlia di Bob, il quale obtorto collo deve tornare in campo riallacciando i legami coi compagni di una volta.
Anderson costruisce un racconto che ruota attorno all’idea di conflitto permanente: una battaglia che non si chiude mai, che si trascina da una generazione all’altra, che cambia linguaggio e bandiere ma non natura. La rivoluzione, evocata più che realmente praticata, diventa una postura, un atteggiamento identitario, spesso svuotato di efficacia. Il film sembra voler fotografare un’America in cui la ribellione è ormai parte del sistema, inglobata, neutralizzata, trasformata in folklore o in sfogo individuale. In questo senso, il riferimento a un’America “becera”, violenta nei toni e semplificata negli slogan, facilmente riconducibile all’ombra lunga del trumpismo, è evidente e quasi programmatico, diventando questo il terzo film della stagione firmato da registi di alto livello Aster, Lanthimos e Andreson appunto) che affronta , a vari livelli, il problema America con la sua deriva reazionaria.
Eppure, proprio questa chiarezza tematica finisce per essere anche un problema. Anderson osserva il suo paese con lucidità, ma senza mai davvero sporcarsi le mani fino in fondo. La critica al populismo, alla retorica muscolare e alla falsa coscienza rivoluzionaria resta spesso su un piano illustrativo, come se il film temesse di oltrepassare una soglia di ambiguità che invece, in passato, era stata una delle sue grandi forze. Qui la diagnosi è precisa, ma la messa in scena della malattia appare a tratti compiaciuta, quasi estetizzata.



Il cuore del film sembra essere l’incapacità di essere rivoluzionari “vincenti”, o anche solo coerenti. I personaggi parlano di cambiamento, lo invocano, lo performano, ma restano intrappolati in dinamiche personali, narcisistiche, spesso autoreferenziali. La rivoluzione non fallisce perché viene repressa, ma perché si dissolve dall’interno, schiacciata dal peso dell’ego, dalla paura di perdere privilegi minimi, dalla nostalgia di un’idea di lotta che non esiste più. È un tema interessante, certamente attuale, ma che il film ribadisce più volte senza riuscire a farlo evolvere davvero, come se ogni “battaglia” fosse una variazione sullo stesso stallo.
Dal punto di vista formale, Anderson rimane un autore di straordinaria precisione. La regia è controllata, per la prima volta utilizza il formato Vista Vision, il ritmo volutamente irregolare, la costruzione delle scene alterna momenti di grande tensione a lunghe dilatazioni riflessive. Tuttavia, questa volta il suo stile sembra meno necessario, meno organico al discorso. Dove un tempo l’eccesso, la frammentazione o la deriva dei personaggi producevano un senso di vertigine morale, qui finiscono per rafforzare una sensazione di immobilità. Il film guarda il caos americano, ma lo contempla più che attraversarlo.
C’è anche un certo scarto tra l’ambizione politica dell’opera e il suo sguardo umano. Anderson è sempre stato un grande narratore di ossessioni individuali, di solitudini, di rapporti di potere intimi prima ancora che sociali. In Una battaglia dopo l’altra questa dimensione sembra sacrificata in nome di un discorso più ampio, più “necessario”, ma anche più schematico. I personaggi diventano portatori di tesi, figure emblematiche di un’America divisa e confusa, perdendo quella complessità emotiva che rendeva memorabili i protagonisti dei suoi film migliori.
Non si tratta di un’opera sbagliata, né tantomeno irrilevante. È un film che pone domande legittime, che intercetta un disagio reale, che tenta di riflettere sul fallimento delle utopie e sulla trasformazione della rabbia in rumore di fondo. Ma è anche un film che sembra fermarsi un passo prima del baratro, come se Anderson, consapevole della materia esplosiva che maneggia, preferisse mantenere una distanza di sicurezza. Il risultato è un’opera lucida ma non disturbante, ambiziosa ma non radicale, capace di descrivere l’impasse senza riuscire davvero a farla sentire sulla pelle dello spettatore, un'opera insomma che mostra più i toni da film d'azione con venature da commedia che impegno politico e sociale.
Forse è proprio questo il nodo: Una battaglia dopo l’altra parla di rivoluzioni mancate e, in qualche modo, finisce per assomigliare al suo stesso oggetto: un film che osserva l’incapacità di andare fino in fondo, che denuncia l’impotenza ma ne resta, consapevolmente o meno, prigioniero. Un’opera importante nel percorso di Anderson, ma non necessariamente una delle sue più riuscite, soprattutto se confrontata con la radicalità emotiva e formale che in passato lo aveva reso uno degli sguardi più inquieti e imprevedibili del cinema americano contemporaneo.

martedì 9 dicembre 2025

One Wacky Summer / 脱缰者也 ( Cao Baoping / 曹保平 , 2025 )

 



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Giudizio: 6.5/10

One Wacky Summer è quanto di più apparentemente lontano da un regista come Cao Baoping si possa immaginare, una contorsione a 180 gradi: un cineasta tra i più interessanti e a tratti folgoranti dell’ormai ex-nuovo cinema cinese che ha costruito la sua reputazione sul cinema crudo, sul thriller morale e sulla durezza dei rapporti umani ; da film come The Dead EndThe equation of love and death o Cock and Bull  Cao Baoping si lancia in un esperimento di tono e registro: una commedia nera, un “crime-comedy” ( molto più comedy che crime a dire il vero) contaminato da humor provinciale, tutta recitata nel dialetto di Tianjin e un’ironia amara.
La storia si apre sul personaggio di Ma Fei — interpretato da Guo Qilin — un uomo che torna nella sua città natale, Tianjin, dopo anni di lontananza, segnato da fallimenti e mille sogni infranti. 
In un’esistenza che non gli ha riservato granché, Ma Fei si ritrova pure imbrogliato dalla famiglia che lo taglia fuori completamente dal testamento del padre deceduto, una famiglia dove andando oltre all’apparenza si scopre che nessuno è persona né affidabile né tantomeno realizzata: una sorella è sposata con un mezzo scemo, l’altra è la mamma di un simpatico ragazzino e ex sposata con un uomo che però non accetta la fine della relazione, la vecchia matriarca sembra quella più normale seppur abbastanza rimbambita. 
Intenzionato ad avere la sua parte di eredità Ma Fei mette in atto un ridicolo tentativo di rapimento del nipote Li Jiawen , il quale è molto più che contento di farsi portare in giro dallo zio sulla sgargiante auto tamarra. A questo atto — che già nella sua assurdità promette guai — si aggiunge il coinvolgimento di una sorta di gruppo improvvisato: una banda di loschi figuri, amici e conoscenti, un’alleanza improbabile  di disperati che dovrebbero aiutare Ma Fei nella sua “avventura”.
Da qui parte un crescendo di caos: la fuga si trasforma in un viaggio sgangherato, in una serie di equivoci, festini improvvisati, tradimenti e situazioni borderline . Si aggiungono alla mischia altri gruppi : la famiglia preoccupata che nel frattempo ha ricevuto la richiesta di riscatto  che si mette sulle tracce dei fuggiaschi, cugini, prestatori di denaro, criminali improvvisati e malavitosi pericolosi, ciascuno con i propri interessi, paure e debolezze. 



Le tensioni emergono, le bugie si moltiplicano, la “corsa” per salvarsi o per sfruttare la situazione prende il sopravvento. Ci sono momenti di comicità grottesca, altri di tensione reale, così come lampi di violenza e cinismo che squarciano la patina scherzosa, senza mai raggiungere livelli di violenza intollerabile o fuori luogo, anzi il tono dominante rimane quello da dark comedy un po’ sullo stile di Ning Hao.
Più che una fuga, diventa un viaggio su un carro impazzito, con i personaggi come passeggeri imprevedibili, tutti in bilico tra il ridicolo e la disperazione: Ma Fei, con la sua aria da bambinone, cerca giustizia e denaro  per se stesso e al tempo stesso deve comunque proteggere il ragazzino che è molto più che un semplice ostaggio ; il ragazzo, al quale Ma Fei cerca di dare un ruolo quasi da “complice adolescente”, oscillando tra fiducia e diffidenza; gli sgangherati loschi figuri e complici soggetti spregiudicati, ma anche fragili, che cercano una via d’uscita; e la famiglia, che rappresenta le radici da cui si è fuggiti ma anche la responsabilità morale.
Il film fa ampio uso del dialetto di Tianjin, non solo come colore locale, ma come elemento di identità e di comicità: i modi di dire, i tic verbali, le battute, le intonazioni , tutto contribuisce a creare un’atmosfera di “realismo popolare”, come se si guardasse una commedia di provincia, fatta di persone concrete, di battute dure, di sogni modesti e di fallimenti. 
Cao Baoping qui gioca volutamente con le aspettative: quelli che nei suoi film precedenti erano criminali incalliti, detective spietati, drammi morali, diventano qui figure paradossali, buffe, vulnerabili; ma non per questo innocue. La “criminalità” non è cinica propaganda: è disperazione, è bisogno di sopravvivere, è desiderio di riscatto. E l’ironia , spesso crudele , è un modo per tenere insieme la dignità e la vergogna, la rabbia e la tenerezza.

lunedì 8 dicembre 2025

The New Year That Never Came ( Bogdan Muresanu , 2024 )

 



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Giudizio: 8/10

Con The New Year That Never Came, il regista romeno Bogdan Mureșanu firma il suo lungometraggio d’esordio, un’opera che affonda le radici nella memoria collettiva e personale, affrontando uno dei momenti più traumatici e al tempo stesso fondamentali della storia recente della Romania: la caduta del regime di Nicolae Ceaușescu e la fine del comunismo nel dicembre del 1989. A trentacinque anni da quegli eventi, Mureșanu sceglie di guardare indietro con lo sguardo duplice di chi allora era un adolescente – aveva appena quindici anni – e di chi oggi, adulto e regista, tenta di dare forma cinematografica a un trauma storico ancora irrisolto, stratificato tra il mito, la disillusione e la memoria personale.
Il film si apre nei giorni convulsi tra Natale e Capodanno del 1989 , culminati con l’esecuzione di Ceaușescu e della moglie Elena, con il paese che si trova improvvisamente senza guida, sospeso tra euforia e paura. 
Mureșanu costruisce una narrazione corale, intrecciando le vite di diversi personaggi che rappresentano, ciascuno a modo suo, una parte del mosaico sociale di quell’epoca e che praticamente si sfiorano soltanto dal punto di vista narrativo ma che esprimono ognuno un particolare settore della società romena dell’epoca: ufficiali dell’esercito, agenti della temutissima Securitate, attori in crisi , operai usati per la propaganda, ragazzini che si ritrovano ad essere senza alcuna volontà spie che rischiano di minare la famiglia.
Questi volti non sono tanto figure individuali quanto simboli collettivi, incarnazioni di una nazione che si scopre improvvisamente senza punti di riferimento, costretta a guardare dentro se stessa per capire cosa significhi libertà dopo decenni di menzogna e paura. Mureșanu, che in passato si era fatto notare con il cortometraggio The Christmas Gift , già dedicato al clima surreale degli ultimi giorni del regime, amplia qui quella prospettiva, trasformando il racconto intimo in una cronaca esistenziale e politica, dove ogni gesto quotidiano è carico di ambiguità morale.
Il titolo, The New Year That Never Came, suggerisce subito la dimensione sospesa del tempo: un Capodanno che non arriva mai, simbolo di una promessa mancata, di un “nuovo inizio” che resta imprigionato tra il desiderio di cambiamento e la paura del vuoto.
Mureșanu costruisce il film come un lungo crepuscolo, dove la luce grigia e invernale di Bucarest si mescola alle ombre della notte, e dove il rumore lontano degli spari si confonde con quello dei fuochi d’artificio. È un mondo in transizione, né più comunista né ancora libero, dove la verità è continuamente riscritta da chi detiene, anche solo per un giorno, il controllo del potere e della parola.
La struttura narrativa non è lineare: Mureșanu frammenta il racconto in episodi paralleli che si incrociano in modo apparentemente casuale, ma che progressivamente rivelano una precisa architettura simbolica. 



L’approccio registico di Mureșanu è sobrio, controllato, quasi documentaristico, ma la sua freddezza visiva è bilanciata da una profonda tensione emotiva. Le inquadrature fisse e i piani medi dominano la messa in scena, mentre la macchina da presa raramente si muove: osserva, attende, lascia che siano gli sguardi e i silenzi a parlare. In questa immobilità apparente, si avverte però un continuo fremito, una vibrazione interiore che restituisce al film una densità morale e umana straordinaria.
Non c’è enfasi patriottica né celebrazione eroica: Mureșanu rifiuta la retorica della rivoluzione per restituire piuttosto il disorientamento collettivo di un paese che cambia senza capire cosa stia realmente succedendo. 
È un film sulla fine di un mondo, ma anche sull’incapacità di riconoscere l’inizio di un altro. In questo senso, The New Year That Never Came si colloca idealmente accanto a opere come A est di Bucarest di Corneliu Porumboiu o La morte del signor Lazarescu di Cristi Puiu, condividendo con il Nuovo Cinema Romeno la volontà di interrogare la Storia attraverso lo sguardo dei suoi testimoni anonimi.
Pur essendo il suo esordio nel lungometraggio, Mureșanu dimostra una sorprendente maturità narrativa e formale. La sua regia è priva di compiacimento, essenziale ma precisa, sempre attenta ai dettagli che definiscono l’atmosfera: una radio che gracchia notizie contraddittorie, un albero di Natale spento in un appartamento gelido, un brindisi improvvisato con bicchieri di plastica e lacrime. Tutto concorre a costruire un clima di sospensione che restituisce la sensazione di un tempo congelato, di una festa che non arriva mai.

sabato 6 dicembre 2025

No Other Choice [aka Non c'è altra scelta] ( Park Chanwook , 2025 )

 



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Giudizio: 8.5/10

No Other Choice ( pedissequamente tradotto in Non c'è altra scelta nella versione italiana) di Park Chan-wook —autore che torna a Venezia giusto 20 anni dopo Lady Vendetta, è un’opera che, manifesta con forza la cifra estetica e morale del suo autore il quale dimostra ancora una volta di trovarsi a suo agio anche al di fuori del suo ambito cinematografico nazionale.
Il film, ispirato al romanzo The Ax di Donald E. Westlake e già portato sullo schermo col titolo Cacciatore di teste da Costa Gravas cui Park dedica la sua opera, racconta la storia di You Mansu (interpretato da un eccellente Lee Byung-hun), un uomo che, dopo aver dedicato 25 anni della sua vita a un’industria cartaria, viene improvvisamente licenziato in seguito ad una riorganizzazione dettata dai nuovi proprietari americani della industria. 
Di colpo, la sua sicurezza economica, la sua posizione sociale, la quotidianità della famiglia — basata su uno status acquisito — vengono spazzate via. In un mercato del lavoro feroce e implacabile, in un Paese dove la competizione è spietata e i posti sempre più rari, Mansu decide di reagire a modo suo: architetta un piano spietato per ottenere un nuovo impiego, una sorta di gioco ad eliminazione.
Questa parabola al limite dell’assurdo — eppure tragicamente credibile — è l’asse attorno a cui ruota il film, che, pur partendo da una premessa quasi grottesca su cui Park indugia molto mostrando il suo consueto humor nero e sarcasmo, si trasforma progressivamente in un poderoso atto di denuncia sociale e di riflessione esistenziale che culmina in un finale agrodolce nel quale si sedimenta tutto il dramma della vicenda.
Uno dei temi centrali di No Other Choice è come il lavoro, nella società contemporanea , e in particolare in quella sudcoreana, con le sue pressioni economiche e sociali e la sfrenata competitività , non sia solo un mezzo di sostentamento, ma l’asse intorno a cui ruota la dignità individuale, l’identità, lo status. Per Mansu la perdita del lavoro non è una semplice “perdita di stipendio”: è un’“ascia” che tronca le aspirazioni, cancella certezze, distrugge gerarchie familiari. 
Il film evidenzia come, di fronte alla precarietà e all’“ottimizzazione” spietata del capitale, ogni elemento identitario ( mestiere, posizione, abitazione, ruolo di capofamiglia ) diventi fragile.
La narrazione scava nella paura  molto reale  della discesa sociale: la perdita del lavoro significa non solo crollo economico, ma perdita di status, vergogna, impotenza. Mansu teme non solo per sé, ma per la sua famiglia, per il tenore di vita, per il futuro dei figli. La tensione sociale, la competitività esasperata, la scarsità di opportunità rendono quasi inevitabile la deriva verso la disperazione che si concretizza nella rinuncia alle automobili, agli indici dello status sociale agiato quale le lezioni di tennis della moglie, persino l'abbandono dei cani "perchè non ce la facciamo a sfamare tutte queste bocche".
Il film mette in luce il crollo delle certezze e le conseguenze psicologiche — gelosia, tensioni, sfiducia — che si intrecciano col senso di colpa e la percezione di impotenza. La disgregazione non è solo materiale, ma morale e familiare. 


In questo scenario, la morale tradizionale  è schiacciata dalla logica della sopravvivenza. Nel film, “non c’è altra scelta” diventa la frase-salvezza: un alibi che giustifica il tradimento, la menzogna, persino l’omicidio e che al contempo, paradossalmente è anche quello che dicono al protagonista nel momento in cui chiede spiegazioni sul licenziamento: "non abbiamo altra scelta" , un mantra che vale per chi subisce e per chi invece mette in atto l'azione.
Il fatto che ogni personaggio, direttamente o indirettamente, pronunci quella frase rende evidente come la crisi del lavoro e del mercato abbia effetti sistemici: non solo su un individuo, ma su un intero tessuto sociale, dove la competizione diventa guerra, e la sopravvivenza un “diritto” da conquistare a qualsiasi prezzo. 
Il film non è quindi solo un dramma individuale, ma una radiografia crudele e impietosa  di una società che sacrifica l’umano sull’altare del profitto, dell’efficienza, del rendimento; relativamente a questo aspetto non può non tornare in mente la lotta di classe che Bong Joonho racconta in Parasite opera cui per qualche aspetto il film di Park sembra avvicinarsi.
Una delle caratteristiche più riuscite di No Other Choice è la miscela di humour nero, assurdo e violenza ,un cocktail che, nelle mani di Park, diventa un potente strumento di satira: il film inizia quasi come una commedia nera, con battute taglienti, situazioni surreali, un primo omicidio quasi “cartoonesco” nella sua tragicomica goffaggine. 
Ma quella risata si fa sempre più amara, e la commedia sfuma nella tragedia. Il passaggio non è solo di tono, ma di profondità: la brutalità e il grottesco lasciano il posto alla disperazione, all’alienazione, alla dissoluzione dei legami. È una transizione lenta ma inesorabile, che riflette il crollo dell’interiorità umana, assediata da un sistema che svuota di senso. 
L’opera può essere vista come un attacco frontale — seppur camuffato da thriller — a quel capitalismo contemporaneo di derivazione americana ( ben sottolineato nel primum movens della vicenda) che riduce gli esseri umani a “risorse”: intercambiabili, sacrificabili, sostituibili. Il protagonista non è un “cattivo” canonico: è un uomo normale, spinto dal panico, dalla paura, dalla necessità di sopravvivere. E la sua discesa morale è presentata come possibile “da chiunque”. Così, il film espone l’assurdità e la crudeltà di un sistema che trasforma la sopravvivenza in guerra fratricida nella quale si perde ogni minimo residuo di etica e di moralità che non sia la sopravvivenza bruta
Chi conosce il cinema di Park Chanwook — dalla sua fama consolidata con svariati lavori — riconoscerà in No Other Choice una sua cifra distintiva: l’attenzione ossessiva per l’inquadratura, la composizione, la messa in scena; ogni dettaglio visivo ,dalla scenografia alla fotografia, fino al suono e al montaggio , contribuisce a costruire un mondo che vive di contrasti forti: il già visto del quotidiano e il disturbante dell’imprevisto.

domenica 30 novembre 2025

Girls on Wire / 想飞的女孩 ( Vivian Qu / 文晏 , 2025 )

 



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Giudizio: 8/10

Con Girls on Wire che ha visto la luce alla ultima Berlinale, la regista cinese Vivian Qu firma il suo terzo film, confermando la coerenza di un percorso artistico che si è sempre mosso lungo una linea di confine tra realismo e introspezione, tra denuncia sociale e sguardo intimista. 
Dopo Trap Street (2013) e Angels Wear White (2017), Qu torna a raccontare le ferite invisibili della società cinese contemporanea attraverso gli occhi di giovani donne, costrette a vivere in un mondo che sembra negare loro ogni possibilità di scelta, ma capaci di costruire, nel silenzio e nella solidarietà, una forma autentica di resistenza.
Il titolo, Girls on Wire, è già di per sé un manifesto poetico: non solo un riferimento diretto ad una delle due protagoniste ma anche un’immagine sospesa, quasi metafisica, che rimanda alla condizione precaria e fragile delle protagoniste stesse, ma anche alla loro forza nel mantenere l’equilibrio nonostante tutto. Come funambole che camminano sul filo della vita, queste ragazze cercano di sopravvivere a un contesto familiare e sociale violento, privo di etica e compassione, trovando nel legame reciproco l’unica via per emergere dall’abisso.
La storia segue due giovani ragazze, cugine,  che vivono ai margini di una città cinese senza nome, schiacciate da una famiglia incapaci di proteggere, da adulti violenti e assenti e da istituzioni che chiudono gli occhi. Sebbene deteriorato dagli eventi occorsi negli anni il loro rapporto diventa l'unica ancora di una possibile salvezza per entrambe finite in giri e frequentazioni poco raccomandabili, un rifugio, una zona franca in cui poter respirare e, per la prima volta, sentirsi comprese.
Vivian Qu costruisce il racconto con una delicatezza straordinaria: non cerca l’enfasi emotiva, ma lascia che siano i silenzi, gli sguardi e i gesti minimi a parlare. La regista accompagna lo spettatore dentro la vita delle protagoniste senza spiegarla mai del tutto, attraverso una narrazione frammentata, ellittica, fatta di scene che sembrano rubate al reale.
Le due ragazze attraversano spazi chiusi, spesso squallidi (dormitori, case claustrofobiche, aule scolastiche )  dove la violenza non è necessariamente fisica, ma costante, insinuata nei comportamenti e nelle parole. 
In Girls on Wire torna il tema centrale della poetica di Vivian Qu: la violenza strutturale contro le donne e le giovani generazioni, e la possibilità di sfuggirle attraverso la solidarietà e la consapevolezza. Ma rispetto ad Angels Wear White, dove la denuncia era più esplicita, qui la regista compie un passo ulteriore: non mostra più la ferita, ma il modo in cui si può continuare a vivere con essa.
La famiglia, che nel cinema cinese tradizionale è un pilastro morale, diventa in Qu un luogo di oppressione e di colpa. Gli adulti non sono modelli, ma complici inconsapevoli , attraverso le loro azioni scellerate, di un sistema che perpetua la violenza. Tuttavia, la regista evita il moralismo e la retorica: la sua forza sta nel mostrare la realtà senza deformarla, lasciando che la verità emerga dai comportamenti, dalle omissioni, dai silenzi che separano i personaggi.




Il film parla quindi di un’educazione alla sopravvivenza, di un’infanzia rubata, ma anche della nascita di una consapevolezza. Le protagoniste trovano nel loro legame la possibilità di ridare senso alla parola “cura”, di creare un linguaggio comune fatto di gesti semplici quali una carezza, uno sguardo, un atto di fiducia. È una unione che va oltre il legame di sangue e  che diventa una forma di opposizione politica, un modo per reclamare umanità in un mondo che l’ha dimenticata.
Sul piano formale, Girls on Wire conferma la mano sicura e personale di Vivian Qu. La regista lavora con una messa in scena minimale ma profondamente espressiva, dove ogni scelta visiva ha un valore simbolico. La macchina da presa osserva, non giudica. I movimenti sono lenti, calibrati, quasi invisibili; la fotografia alterna tonalità fredde e spente a improvvisi bagliori di luce che segnano momenti di apertura emotiva.
Qu non cerca mai il pathos, ma un’intensità che nasce dall’attesa e dalla sospensione. L’uso del silenzio, così come la rarefazione dei dialoghi, diventa una forma di scrittura: il non detto è ciò che più pesa, il vuoto diventa luogo della verità. Il montaggio procede per frammenti, rifiutando la linearità classica in favore di una struttura che rispecchia la percezione confusa e interiore delle protagoniste.
Ciò che distingue la regista è la capacità di unire rigore formale e calore umano: il suo cinema non è mai freddo o cerebrale, ma profondamente empatico, ogni inquadratura è una presa di posizione morale, e al tempo stesso un atto di ascolto verso chi non ha voce.
Nel panorama del cinema cinese contemporaneo, Girls on Wire rappresenta un’opera di equilibrio e coraggio. Vivian Qu appartiene a quella generazione di registi che ha saputo coniugare l’osservazione sociale con un linguaggio poetico e personale, ma la sua prospettiva si distingue per la centralità assoluta dello sguardo femminile.
Mentre autori come Jia Zhangke o Lou Ye raccontano la Cina nella sua dimensione collettiva, politica e urbana, Qu sceglie il microcosmo, le vite minori, gli interstizi della quotidianità. È lì che si gioca la partita della dignità. La regista indaga il modo in cui la violenza domestica, la povertà affettiva, la mancanza di etica familiare si radicano nell’animo delle persone, fino a diventare destino. Ma lo fa con uno stile che sfugge al didascalismo, lasciando emergere la critica sociale come un sottotesto emotivo, non come un discorso imposto.

sabato 29 novembre 2025

Little Trouble Girls [aka La ragazza del coro] ( Urska Djukic , 2025 )

 



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Giudizio: 7.5/10

La giovane regista slovena Urška Đukić esordisce nel lungometraggio con Little Trouble Girls (La ragazza del coro, il titolo italiano) consegnando al pubblico un'opera prima che, pur mantenendo la freschezza e le imperfezioni tipiche del debutto, mostra una cifra autoriale netta e una sensibilità visiva e narrativa di straordinaria personalità. 
Il film si muove sul confine sottile , e per questo fertile , tra il ritratto psicologico e il racconto sociale, componendo un coming-of-age atipico dove la crescita non è solo passaggio dall'innocenza all'esperienza, ma lotta tra pulsioni individuali e dispositivo culturale-religioso che le reprime.
La vicenda segue la protagonista ,un'adolescente inserita in un contesto comunitario fortemente segnato dalla pratica religiosa e da una morale collettiva severa, mentre attraversa un anno cruciale: incontri, trasgressioni, amicizie, piccoli e grandi atti di disobbedienza, voci sussurrate che la circondano impregnandola di misticismo, che la spingono a interrogarsi su sé stessa, sul desiderio e sulla propria libertà. Il centro del racconto è una trasferta in Friuli del coro in cui Lucija, la protagonista, canta. La progressione narrativa evita l'arco lineare «inizio-crisi-risoluzione» canonico; Đukić predilige sequenze episodiche e momenti di forte messa a fuoco emotiva che accumulano tensione psicologica, fino a picchi di rottura che non sempre si risolvono in manifestazioni risolutive. È un racconto che somma frammenti , piccoli incidenti, gesti quotidiani, segreti sussurrati , e li trasforma in una geografia interiore.
Il cuore tematico del film è la collisione fra pulsioni adolescenziali quali la sessualità nascente, il bisogno di autonomia, la ricerca di identità , e un ambiente culturale/religioso che pretende conformità e repressione. 
Đukić non tratta la dimensione religiosa come un mero sfondo o come un nemico caricaturale: la ritrae come organismo complesso, fatto di affetti sinceri, riti rassicuranti e anche di regole che soffocano. Questo approccio evita facili demonizzazioni e permette di mostrare come il conflitto sia interno alla comunità e, soprattutto, alla protagonista stessa: la colpa, l'attrazione per il proibito, il desiderio di appartenenza.
Il film esplora inoltre il tema della complicità femminile e dell'amicizia femminile come spazio di emancipazione: le relazioni fra le giovani non sono solo rifugio, ma anche laboratorio di persone che si allenano alla libertà. Đukić mette in scena una micro-società di ragazze che sperimentano, tradiscono, sostengono e tradiscono ancora, quel fluire di affetti contraddittori che è il primo vero campo di prova per la formazione dell'individuo.



Questo non è il classico racconto di formazione: l'avanzamento verso la maturità non è un'unica rivelazione che pone fine all'incertezza, al contrario, Đukić opta per un percorso a spirale, segnato da ritorni, fallimenti, piccoli atti di saggezza che non garantiscono un futuro lineare. La maturazione è presentata come un processo frammentario, spesso doloroso, che lascia tracce ma non sempre risposte definitive. Questa scelta narrativa dirompente rispecchia l'idea che crescere sia spesso contraddittorio  e che la libertà, quando conquista spazio, può avere il volto della precarietà.
Sorprende la coerenza stilistica che Đukić mostra già nel suo primo film. La regia è attenta al corpo: primo piano su mani che tremano, inquadrature che seguono i movimenti imperfetti del corpo adolescente, piani medi che lasciano lo spazio per i gesti e per la loro ambiguità. 
La macchina da presa, quando serve, diventa lieve e quasi documentaria; altre volte si irrigidisce in composizioni statiche che sembrano misurare il peso della norma. Questa alternanza produce un effetto di straniamento controllato: lo spettatore sente sia la pulsione alla vita sia la gravità del contesto.
La fotografia privilegia una luce naturale, spesso filtrata, che conferisce alle sequenze un'aura di realismo poetico: colori tenui, tonalità pastello e, in certi momenti, scelte cromatiche più nette nei momenti di rottura, accompagnano il tono emotivo. La regista cura il suono in modo minimale ma efficace: i rumori ambientali (canti, passi, il fruscio di tessuti religiosi) diventano parte della partitura emotiva, mentre la musica si inserisce raramente, per sottolineare senza sovrapporre.

sabato 22 novembre 2025

Armand ( Halfdan Ullmann Tøndel , 2024 )

 



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Giudizio: 7.5 /10

Con Armand, presentato alla Settimana della Critica del Festival di Cannes e vincitore del Grand Prix, il giovane regista norvegese Halfdan Ullmann Tøndel firma un esordio sorprendente per maturità stilistica, rigore concettuale e capacità di cesellare una tensione emotiva che rimane sospesa come una corda tesa tra i personaggi. 
Non si tratta soltanto del debutto di un promettente autore scandinavo, ma dell’ingresso nel cinema di un cineasta che porta sulle spalle un’eredità pesantissima: quella dei suoi nonni, Ingmar Bergman e Liv Ullmann, figure centrali del cinema europeo.
Il paragone è inevitabile , e in certi momenti, a dire il vero, perfino cercato , ma ciò che sorprende è come Tøndel non sembri schiacciato da questa genealogia: al contrario, la usa come punto di partenza per costruire un linguaggio più sfumato, più intimo, meno metafisico ma altrettanto penetrante.
La trama del film è, in apparenza, essenziale: un presunto episodio di violenza scolastica tra due bambini di otto anni, Armand e Jon, avvenuto nella scuola che frequentano. Non sappiamo cosa sia accaduto davvero e, soprattutto, non lo sapremo mai con certezza.
Il film si apre quando i genitori vengono convocati per chiarire l’accaduto: la mamma di Armand è vedova da poco e la mamma di Jon è la sorella del padre di Armand che prova una certa avversione per la cognata che ritiene responsabile in qualche modo della morte del fratello: è la scintilla che dà inizio a un lungo pomeriggio di sospetti, accuse, difese a oltranza, risentimenti mai risolti.
Tøndel compie una scelta radicale: non seguire i bambini, che anzi non sono praticamente mai presentati nel film, ma gli adulti che li rappresentano, li proteggono, li sovraccaricano delle proprie aspettative. Il conflitto non riguarda affatto la violenza infantile, ma il modo in cui la colpa, anche se solo ipotizzata, si insinua negli ingranaggi sociali e familiari, deformandoli.
Il presunto litigio tra i ragazzini è allora un pretesto narrativo, ma soprattutto uno specchio deformante, attraverso cui emerge l’incapacità degli adulti di affrontare le proprie fragilità affettive e relazionali.
Il tema centrale del film è la colpa, da sempre una delle tematiche più pregne del cinema nordico-scandinavo, non la colpa come atto commesso, ma la colpa come proiezione, come materia contagiosa, come sentimento che circola negli sguardi e nelle omissioni.
Armand è accusato, forse ingiustamente, ma l’essenza del racconto non risiede nella sua innocenza o nella sua responsabilità: il punto è rivelare come gli adulti reagiscono di fronte alla possibilità che il proprio figlio abbia causato un danno.



Il film mette a fuoco alcune dinamiche fondamentali: i genitori temono che un’etichetta si attacchi alla famiglia, che un episodio banale possa definire il carattere di un bambino. Tøndel mostra così la fragilità dell’identità borghese nordica, sempre in equilibrio tra ordine apparente e caos interno; i personaggi riversano sui figli ansie che appartengono ai loro rapporti di coppia: vecchie gelosie, omissioni, rancori che trovano nel caso Armand-Jon un’occasione perfetta per riemergere; nelle conversazioni, negli scambi di accuse, nel tentativo di controllare la narrazione, la colpa diventa una leva.
La domanda “Chi ha iniziato?” smette presto di riguardare i bambini: diventa “Chi è la vera vittima qui?”, “Chi ha più da perdere?”, “Chi ha il diritto di raccontare la propria versione?”.
Il cuore del film è l’osservazione dei rapporti interpersonali tra adulti: non solo tra le due coppie protagoniste, ma anche tra genitori e istituzioni scolastiche, tra madri e padri, tra chi parla troppo e chi tace troppo.
Tøndel costruisce una drammaturgia da camera, bergmaniana nella sostanza ma contemporanea nei dettagli:sguardi che cercano di dominare l’altro,frasi trattenute che poi esplodono in monologhi,sorrisi di circostanza che diventano smorfie,lunghe pause in cui il silenzio dice tutto ciò che le parole evitano.
La tensione cresce non per eventi esterni, ma per accumulo emotivo; ogni dialogo è una scena di combattimento in cui la posta in gioco aumenta di minuto in minuto.
A livello stilistico, Tøndel si affida a un impianto che ricorda le coordinate del cinema nordico contemporaneo – linearità, ambienti curati, fotografia naturale – ma introduce elementi che “sporcano” il realismo.
Gli ambienti scolastici, ripresi come luoghi neutri, diventano presto claustrofobici: corridoi asettici, uffici spogli, aule dagli echi metallici. È come se l’edificio stesso partecipasse al conflitto, molti primi piani, spesso stretti e mossi, registrano micro-espressioni, tremolii, tic nervosi: un’eredità diretta del cinema di Liv Ullmann regista, ma anche del Bergman più tardo.Il film procede per quadri, per lunghi confronti interrotti da attese e sospensioni. La cornice temporale è ristretta, ma la densità emotiva è altissima.

venerdì 21 novembre 2025

Le verità ( Kore'eda Hirokazu , 2019 )

 



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Giudizio: 7.5/10

Kore-eda Hirokazu arriva per la prima volta in Europa con Le verità, film che conserva il garbo riflessivo del suo cinema ma lo rotea volutamente verso un palcoscenico occidentale: una grande diva del cinema (Catherine Deneuve) nella sua villa parigina, una figlia sceneggiatrice (Juliette Binoche) sposata con un attore americano tornata dopo anni, e una serie di visite e confessioni che smuovono memorie, omissioni e menzogne. 
Quel che Kore-eda mette in scena non è tanto un “giallo” della verità oggettiva quanto una partitura delicata e stratificata sul rapporto tra finzione e vita, su come il mestiere dell’attore , e l’atto di raccontare , possano rimodellare l’identità, i valori e perfino la percezione della verità stessa.
Al cuore del film c’è un’interrogarsi sottile e costante: fino a che punto l’attore, nel dar voce a personaggi e memorie, finisce per imporre una propria versione del reale sulle persone che lo circondano? Kore-eda sviluppa questo quesito attraverso la figura della diva , una donna la cui fama è costruita su ruoli che, per il pubblico e talvolta anche per lei, finiscono per sovrapporsi alla persona. L’attore diventa dunque un agente di verità (o di falsità): la sua interpretazione può rivelare, occultare, tradire. È la recitazione che porta a galla ricordi sopiti, che piega i fatti in funzione di un’immagine più vendibile o più sopportabile.
La protagonista (Fabienne nella pellicola) incarna la tensione fra persona pubblica e intimità privata: il suo passato, il suo essere madre e donna di spettacolo, è un “testo” continuamente riletto e reinterpretato. 
La figlia, che si trova a raccontare e ricostruire eventi, offre la voce del racconto che cerca la verità , ma la verità emerge sempre filtrata, mediata da memoria, risentimento, narrazione personale. Kore-eda ci ricorda che la verità non è solo un dato fattuale, ma una costruzione fragile e plurale.
L’azione è largamente confinata nella villa-residenza della protagonista, scelta registica che trasforma il film in una specie di racconto da camera. Questo spazio chiuso funziona da lente: i dialoghi, gli sguardi, i piccoli gesti guadagnano peso; i conflitti familiari e professionali si concentrano e si intensificano. 
Kore-eda usa l'ambiente domestico come set drammaturgico , la quotidianità diventa palcoscenico e la casa stessa un teatro delle illusioni. La villa, con i suoi corridoi, le stanze affrescate, gli specchi, è luogo di prova: qui si mettono in scena memorie, si fanno prove di verità, si recitano giustificazioni.
Questa economia di spazio ricorda i migliori “film di salotto” europei  e allo stesso tempo conserva l’attenzione ai dettagli relazionali tipica del regista giapponese. Lo scontro tra intimità e spettacolarità si gioca in pochi ambienti, ma ogni inquadratura è calibrata per far emergere la rete di affetti ambivalenti, l’imbarazzo e la complicità che legano madre e figlia.
Kore-eda costruisce la narrazione per strati: conversazioni che sembrano banali diventano rivelatrici; flash di memoria si insinuano come piccoli terremoti emotivi. Non c’è un’unica rivelazione risolutiva ma una progressiva sedimentazione di punti di vista. Questa scelta strutturale sottolinea la natura multiforme della verità: non la cerchiamo come un enigma da risolvere, ma la scopriamo come risultato di ascolto, confronto, spesso di fraintendimenti che però dicono qualcosa di autentico su chi parla.



La sceneggiatura privilegia i dialoghi misurati, gli scambi a volte ironici, che consentono agli attori di scavare nelle sfumature; il ritmo è lento ma attentamente modulato: Kore-eda concede tempo alla parola, ai silenzi, ai ritorni su un episodio che assume nuovi significati mano a mano che emergono altre testimonianze. È una struttura che riflette il suo cinema precedente (la sua inclinazione per il realismo riflessivo e le famiglie allargate), ma qui la posta in gioco è più meta-cinematografica: come si costruisce una narrazione, quali interessi la modellano.
Anche girando in Europa, Kore-eda non rinuncia alla propria cifra: la macchina da presa è discreta, spesso statica, attenta ai volti, ai piccoli movimenti che tradiscono emozioni. Tuttavia, lavorare con attrici del calibro di Deneuve e Binoche e inserirsi in un contesto francese introduce nel film una nuova tessitura stilistica , un certo gusto per la mise-en-scène più teatrale, per l’eleganza degli scorci domestici e per la parola come performance. Il risultato è un equilibrio tra la delicatezza minimalista che conosciamo e un registro stilistico più esplicito, più “francese-parigino” che a tratti ricorda in maniera decisa Francois Ozon, che non stride ma arricchisce l’opera.
Questa operazione cross-culturale ha un altro esito importante: Kore-eda dimostra una capacità di adattamento rara , accoglie il linguaggio e la teatralità occidentali senza subirle né snaturarsi. Il film funziona proprio perché riesce a mediare due tradizioni: la sensibilità intimista giapponese e la cultura del grande attore europeo che è al centro del racconto.
Le interpretazioni sono il vero cuore pulsante del film. La diva anziana riesce a incarnare il paradosso tra magnetismo pubblico e vulnerabilità privata; la figlia, con erranze emotive e sarcasmo, rappresenta la mediazione fra affetto e risentimento. Gli incontri con altri personaggi (partner, amici, colleghi) agiscono come specchi che riflettono versioni diverse di uno stesso fatto, costringendo lo spettatore a navigare fra prospettive discordanti.
Kore-eda dirige gli attori con mano lieve: sa quando chiedere il grande gesto e quando lasciare che un minuto sguardo dica tutto. Il tema del “ruolo che condiziona la vita” diventa evidente quando la carriera e le scelte dell’attrice si rivelano come elementi che hanno plasmato , e magari deformato , le relazioni familiari.
Una delle questioni morali più pregnanti del film è la responsabilità connessa al raccontare: chi ha il diritto di narrare la vita dell’altro? Quali omissioni sono giustificabili? 
Kore-eda ci mette davanti a dilemmi etici: l’arte libera, ma può ferire; la memoria sopravvive, ma si corrompe. Il regista invita a considerare la verità come qualcosa che ha conseguenze pratiche sulle vite delle persone: rivelare o tacere non è un esercizio puramente intellettuale, ma una scelta che incide sui rapporti, sulla dignità, sul futuro.

domenica 9 novembre 2025

Eddington ( Ari Aster , 2025 )

 



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Giudizio: 6.5/10

Con Eddington, Ari Aster abbandona ,o quanto meno sospende, la modalità tipica dell’horror puro, quella di Hereditary  Midsommar , per imboccare la via di un western contemporaneo (neo-western) fortemente politicizzato, ambientato nel pieno della pandemia di Covid-19 e delle agitazioni sociali degli Stati Uniti del 2020.
La pellicola mette in scena una cittadina immaginaria del Nuovo Messico, Eddington appunto, dove lo scontro tra lo sceriffo Joe Cross (Joaquin Phoenix) e il sindaco Ted García (PedroPascal) s’innesca in un clima di paranoia, protesta, complottismo, mascherine, teorie del virus, lotta razziale e disorientamento politico, insomma un trumpismo montante che avrebbe poi portato inevitabilmente alla pantomima dei MAGA.
Da questo incipit, Aster intesse un discorso ambizioso: non più solo la famiglia come nucleo di orrore interiore, non più solo la cerimonia di rito come metafora del trauma, ma un intero Paese in dissoluzione , o meglio, in perenne combustione nel quale vengono a galla in maniera esplosiva situazioni e latenti contraddizioni che portano a rivalutare la vera natura della società yankee. Il tutto, va detto, avviene ben prima della ascesa di Trump, ma ciò che Aster racconta è quanto di più profetico ( o semplicemente ovvio?) riguardo la deriva intrapresa dal paese in questi ultimi anni.
Il film utilizza la pandemia come cornice di tensione: il momento in cui le regole sanitarie, le restrizioni e la paura collettiva spalancano spazi di delirio, isolamento e conflitto. In questo senso, la mascherina, il rifiuto della mascherina, l’asmatico-sceriffo che non la vuole indossare mostrano come i singoli simboli diventano totem ideologici.
Aster costruisce così un discorso sulla fragilità del tessuto sociale: quando una calamità (sanitaria, ma presto anche politica) colpisce, la comunità non reagisce in modo compatto ma esplode in una guerra di tutti contro tutti , una resa dei conti tra angosce individuali e paure collettive.
La candidatura dello sceriffo Joe Cross , che diventa simbolo di un certo tipo di America “ritorno alle origini”, “radici radical-repubblicane”, intolleranza , assume le tinte del populismo. Il sindaco García, ispanico, diventa l’“altro”, il bersaglio del rancore, del sospetto, della rivendicazione etnica e razziale. 
In questo  scontro politico-sociale che sembra scorrere sempre sul filo del rasoio che fa da confine tra il populismo becero e la violenza silente, Aster pare voler mettere in scena la summa,  se non la parodia, di tutte le follie americane che si sono accumulate dal 2020 in avanti: pandemia , protesta per la morte di GeorgeFloyd , elezioni presidenziali , cultura delle armi , teorie del complotto , trumpismo etc.
In tal modo il film non è solo un western, ma una satira amara dell’“America spaccata”, che utilizza il genere per smascherare macro-temi: la paura, il tribalismo, l’impossibilità di mediazione, la perdita di senso civico.



Come nelle opere precedenti di Aster, la violenza ,spesso disturbante e grottesca , non è solo mezzo spettacolare ma corpo emotivo del racconto. In Eddington essa assume dimensioni comunitarie: non è solo trauma individuale, è esplosione collettiva. 
Si assiste alla disgregazione di una cittadina che diventa microcosmo di un Paese in crisi. Le teorie del complotto, i culti pseudo-religiosi, le armi, la setta guidata da Vernon Jefferson Peak (interpretato da Austin Butler) si sovrappongono ai conflitti razziali e politici, creando un magma in cui la coesione sociale va in pezzi. 
Accanto alla dimensione pubblica e politica, Aster intreccia temi classici del suo cinema: la colpa, il trauma, la memoria che ritorna. La moglie del protagonista, Louise (EmmaStone), fragile, vittima di abusi e sedotta da una setta, rappresenta la presenza ingombrante del passato personale che si inscrive nell’epoca del caos collettivo. L'individuo non è estraneo alla tempesta esterna: partecipa, è travolto, e a volte la provoca.
Nel panorama della sua filmografia, Eddington rappresenta un passo differente; nei precedenti lavori — Hereditary e Midsommar — Aster operava all’interno dell’horror rituale, con ambienti isolati, cerimonie ataviche, orrori introspettivi. In Beau is Afraid  ha già tentato un ampliamento verso la satira, la commedia nera e la disperazione esistenziale; ora, con Eddington, passa a un genere più “mainstream”  come il western ma lo utilizza in modo ironico, destabilizzante, sottilmente politico.
L’impianto narrativo è dunque più ampio, più corale, meno “microcosmico”. L’azione si svolge in un ambiente urbano-frontiera (piccola città del Nuovo Messico), piuttosto che in una comunità chiusa o in un villaggio isolato. Il tempo è storico (maggio 2020), non atemporale. L’orizzonte è nazionale, non solo familiare o mitico. Questo cambio di scala comporta opportunità — nuove problematiche, un racconto più ambizioso — ma anche rischi: il dover gestire molti personaggi, molti filoni tematici, molte caricature sociali.
Dal punto di vista visivo, la scelta del formato widescreen  e l’ambientazione nel deserto evocano il western classico, ma l’estetica si carica di surreale e grottesco, come da cifra Asteriana. 
Sicuramente la volontà di Aster di affrontare un’America contemporanea in crisi ­— complottismo, pandemia, polarizzazione politica, proteste razziali — è coraggiosa e rilevante e Eddington si configura come una sorta di mappa mentale, visiva e narrativa, di quegli anni tumultuosi , un autentico  sguardo lucido sulla decomposizione americana, come è stato definito ed interpretato da molte parti, e rimane tirando le somme sul giudizio critico del film l’aspetto certamente più valido e meglio riuscito della pellicola cui va ad affiancarsi la  performance attoriale : Phoenix, Pascal e Stone contribuiscono a dare corpo a personaggi riuscendo a non oltrepassare quella sottile linea che ne avrebbe fatto delle semplici e banali caricature.
Anche  la contaminazione di generi funziona nei momenti in cui Aster gestisce bene ritmo, tensione e accumulo, molto meno quando con l’evento deflagrante che fa esplodere il tessuto filmico fin lì costruito ci si ritrova nella violenza splatterosa che si muove tra i fratelli Coen e Tarantino senza però le sfumature ironiche e surreali di quest’ultimi.
Viceversa l’opera di Ari Aster presenta  anche numerosi aspetti che convincono poco o nulla, in primis la sovrabbondanza di elementi tematici che vanno a creare un corpo narrativo difficile da gestire che porta inevitabilmente alla dispersione , il tutto esacerbato da un repentino cambiamento di genere e di atmosfere, come già detto, che fa scivolare il film in un incedere caotico che sembra sfuggire di mano più di una volta al regista, fino al finale che se può apparire potente è invece piuttosto debole di fronte alla messe di tematiche gettate in campo dal regista al punto che il peso della riflessione politica e sociale rischia di diventare didascalico: il messaggio è forte, ma forse poco mediato e lascia qualche interrogativo su quale sia il reale significato 
Insomma è proprio nel terzo atto e nel finale che Eddington mostra la sua ambizione più rischiosa  e allo stesso tempo il suo punto più debole. 
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