venerdì 24 aprile 2020

To the Ends of the Earth ( Kurosawa Kiyoshi , 2019 )




To the Ends of the Earth (2019) on IMDb
Giudizio: 7.5/10

Da un regista come Kurosawa Kiyoshi non ti aspetti un film simile a To the Ends of the Earth; chi conosce la cinematografia del regista giapponese, riconosciuto maestro di thriller a forte impronta psicologica che si muove tra la fantascienza e l'horror, sa anche però che deragliamenti simili sono avvenuti in passato, quasi degli episodi che stanno  a metà strada tra lo sperimentale e il tocco d'artista ( uno su tutti Seventh Code , che tra l'altro con questo suo ultimo lavoro ha anche dei punti di contatto).
Indubbiamente con To the Ends of the Earth Kurosawa incuriosisce e tutto sommato stupisce costruendo una storia che ha il sapore di un racconto di formazione personale e di acquisizione di coscienza.
La protagonista è la giovane  reporter  Yoko, in viaggio per lavoro in Uzbekistan dove viene girato un reportage culturale-etnologico apparentemente in stile National Geographic: dapprima la infruttuosa ricerca di un fantomatico pesce gigante che popola uno specchio d'acqua immenso  , originariamente, in epoca sovietica, un bacino artificiale formatosi però per sbaglio, poi la degustazione di un piatto locale venuto però non bene, quindi una sorta di tortura personale in un fatiscente luna park ripetendo per più volte uno di quei giochi che mettono a dura prova il fisico con sollecitazioni tremende; non tutto soddisfa Yoko, che con molta perseveranza però si applica nel suo lavoro in condizioni tutt'altro che agevoli: dapprima il pescatore che la accusa di essere lei il motivo per cui il pesce misterioso non si fa vedere, poi un regista scostante e tutt'altro che gentile, un ambiente profondamente maschilista che la scruta con apparente diffidenza, solo l'interprete Temur dimostra un minimo di gentilezza verso di lei.


Nelle pause di lavoro Yoko si avventura in escursioni per le città in cui si trova alla ricerca dei bazar : ma sia nella splendida Samarcanda che nella capitale Tashkent la ragazza si trova a fare i conti con una crescente ansia, che diventa quasi angoscia quando finisce nelle mani della polizia da cui lei era fuggita impaurita quando era stata colta a fotografare in zone proibite.
L'esperienza alla fine del mondo è però qualcosa che fa crescere in Yoko una nuova consapevolezza, le fa osservare il suo rapporto sentimentale col fidanzato rimasto in Giappone  sotto una altra prospettiva, realizza che il confronto e la fiducia reciproca può migliore i rapporti tra i vari popoli, sogna di cantare nello splendido teatro Navoi di Tashkent, un edificio che pulsa di storia , magnificamente arredato dai prigionieri giapponesi durante la guerra mondiale, nella figura simbolica della capra che compra per liberarla capisce il senso della libertà, supera persino il suo grande rammarico di non aver potuto fare quello che amava di più, cioè cantare, in un finale spettacolare dal punto di vista visivo e dal grande impatto emotivo grazie all'Inno all'amore di Edith Piaf.
Per tutto quanto detto appare chiaro come la definizione di racconto di formazione, seppur forse limitativa, fotografa bene il senso della pellicola di Kurosawa.
Yoko è una ragazza insicura, ansiosa, che vive in solitudine quella sua esperienza in un paese straniero così distante dai modelli giapponesi, ma al tempo stesso con una curiosità fervida che la porta a muoversi tra la gente di cui sente lo sguardo pesante che le si posa addosso, un personaggio insomma che vive ancora con molte cose da risolvere , con una incompletezza che la rende insicura.

Giunta alla fine del mondo, tra le cupole turchesi di Samarcanda , il teatro Navoi di Tashkent,  la capra che ritrova la sua libertà, la gentilezza di persone che non capisce ma che mostrano il loro aspetto accogliente, il senso dell'infinitezza degli spazi, una natura aspra e per molti verso terribile, persino animali che forse sono solo immaginari e mai esistiti, il suo Inno all'amore può alzarsi alto, perchè tutte quelle paure ed incertezze trovano una fine.
Se come detto l'inizio sembra quasi un racconto su taglio documentaristico , il prosieguo di To the Ends of the Heart richiama in effetti, seppur sotto forme totalmente diverse , il già citato Seventh Code, e non solo per la presenza di Maeda Atsuko in entrambe le opere, ma anche perchè anche lì l'ambientazione ( Vladivostok) pone la protagonista in un ambiente lontano e tutt'altro che ospitale; nel suo complesso ovviamente  le similitudini finiscono qui.
La regia di Kurosawa è molto discreta e tende essenzialmente a valorizzare l'ambientazione e gli scenari naturali che offre l'Uzbekistan e in tal senso un supporto decisivo lo offre la sapiente fotografia di Ashizawa Akiko, inoltre costruisce il personaggio di Yoko in maniera molto empatica, spingendoci subito a simpatizzare per quella ragazza sola in mezzo a tutti uomini che per un motivo o per un altro tutt'altro appaiono che gentili con lei.
Maeda Atsuko ha il giusto atteggiamento timido e remissivo per dare corpo al suo bel personaggio, mentre Sometani Shota, altro onnipresente del cinema giapponese, interpreta in modo convincente il personaggio del regista svogliato e burbero.

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