Giudizio: 8.5/10
L'America schiavista sbattuta in faccia
Che Tarantino fosse un culture del genere western lo si era capito da subito, fra citazioni e omaggi dichiarati nei suoi lavori, oltre che per la forza ispiratrice e la collaborazione che instaurò con Takashi Miike all'epoca di Sukiyaki Western Django, così come non è certo un mistero che il film culto di Sergio Corbucci è sempre stato, a detta del regista americano, un suo perenne riferimento cinematografico. Nonostante tutto ciò abbiamo dovuto aspettare il suo settimo lavoro per vederlo all'opera nel suo genere preferito.
Ma la sorpresa maggiore di Django Unchained sta nel fatto che il genere western funge solo da contenitore per una carrellata su un pezzo di storia americana di quelle da far venire i brividi: lo schiavismo ed il razzismo che poco prima dell'inizio della guerra civile imperavano nel sud del paese.
I grandi spazi, le cavalcate, le stelle d'argento, gli sputi e le facce avvizzite, i saloon e le pistole sempre col cane alzato popolano solo la prima parte del film, quella in cui Django, schiavo di colore, viene comprato dal curioso ex dentista tedesco passato da anni ormai alla più lucrosa attività di cacciatore di taglie.
Quando il sodalizio si compatta , per lo sdegno della popolazione schiavista, Django confessa di volere ritrovare la moglie, venduta a qualche negriero e il Dottor Schultz mostra il suo volto da idealista pistolero raccontando la leggenda germanica di Brunilde ( così si chiama la moglie di Django) e Sigfrido, dando il via ad un crescendo epico della storia che troverà il suo compimento nella piantagione del repellente Calvin Candie, padrone della donna.
Nel finale assistiamo al trionfo del Tarantino-style tra pulp e violenza smodata, culmine di una vendetta inseguita in silenzio.
Dopo avere messo in scena l'orrore nazista giocando con la storia e raccontando quello che non è mai avvenuto, ma che sarebbe stato bene avvenisse, stavolta Tarantino butta in faccia alla coscienza americana un'altra pagina di aberrazione umana e lo fa disegnando uno dei personaggi più detestabili che il Cinema moderno ricordi: il viziato ,annoiato e scimmiottatore di stile francese Calvin Candie che diviene il fulcro intorno al quale tutto si muove , comprese le metamorfosi e l'esplosione dei ruoli che i personaggi fino ad allora avevano recitato.
Schiavismo e razzismo, in alcuni punti raccontati con il solito arrogante e insolente sarcasmo citazionista (vedi la scena degli incappucciati, metà citazione di Griffith, metà parodia da B-Movie), storia d'amore e di umiliazioni, miti nordici che si innestano in un profondo sud degenerato, Beethoven suonato all'arpa nella casa del male e dell''inciviltà che manda in bestia pure il raffinato e pacato Schultz, dialoghi che rasentano a volte la riflessione filosofica aberrante (vedi le tesi frenologiche esposte da Candie col teschio in mano): tutto questo è Django Unchained, lavoro che mostra meno forza anarchica narrativa e maggior rigore lineare, ma che dimostra come oltre che regista potente, Tarantino sa essere anche un grande scrittore di storie.
Nelle sue quasi tre ore di durata, il film non mostra mai un attimo che non sia funzionale alla integrità della storia, tiene il ritmo, si lascia gustare grazie ad una messe infinita di dialoghi e battute e conduce al finale liberatorio in cui riconosciamo il talento visivo e narrativo del regista.
Discorso a parte meritano le interpretazioni di Leonardo Di Caprio, eccellente nel ruolo dello spregevole Calvin Candie, Samuel L. Jackson in gran forma, storico domestico di famiglia Candie, nero ma razzista e schiavista più di un bianco e Christoph Walz, semplicemente grandioso nella parte di Schultz, vero perno e motore della storia.
Grande film, ulteriore dimostrazione dell'eccezionalità di un regista che non sbaglia un colpo. Come ho scritto anche da me, un film che ho amato molto, arricchito sa sequenze splendide e un cast fenomenale. Un saluto.
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